Introduzione

1. Non sono molte le date certe pertinenti alla lunga e complessa stratificazione redazionale della Gerusalemme, a monte delle prime stampe “complete” del poema.1 Tutte riconducibili alla testimonianza delle Lettere tassiane, esse pertengono da un lato allo stato di avanzamento del «Goffredo» all’altezza del 1566-1567,2 e poi, a fronte della “revisione romana”, all’ultimazione della Gerusalemme, all’avvio della revisione e alla brusca interruzione di quest’ultima.3 Alla ricchezza di notizie su eventi centrali o marginali della revisione, sui progetti d’autore anche in vista della pubblicazione (magari con l’aggiunta, via via che le difficoltà del progetto venivano in primo piano, di ipotesi di edizioni plurime4), corrisponde così un sostanziale silenzio delle testimonianze disponibili circa i due estremi di questa storia redazionale: il lavoro del Tasso sul poema dopo l’interruzione della “revisione romana”, e quello che precede l’avvio di quest’ultima. Molteplici risultano naturalmente, ex post, le notizie su quest’ultimo versante provenienti dalle lettere tassiane,5 ordinabili però solo in vista della messa a punto di una cronologia relativa: mentre il cospicuo numero dei testimoni mss. e a stampa superstiti sono stati da tempo rivisitati dal compianto Luigi Poma e dalla sua scuola, e ordinati in un diagramma a tre fasi, alfa beta e gamma.6

La cronologia del Gierusalemme, di cui in questa sede si propone una nuova edizione commentata,7 è com’è noto stata al centro fra Otto e Novecento (come quella di altri scritti giovanili del Tasso: i Discorsi dell’arte poetica8) di un’ampia discussione in cui si sono confrontate due ipotesi, che sottintendono sul piano critico due valutazioni differenti dei rapporti che intercorrono fra l’avvio del poema gerosolimitano del Tasso e la confezione del Rinaldo, dato alle stampe a Venezia nel 1562.9 Rispetto alla cronologia “bassa” pur autorevolmente proposta (1563-156410), l’ipotesi alternativa (cronologia “alta”: 1559-1560, e insomma in concomitanza con l’arrivo del Tasso «figlio»11 a Venezia) è l’unica a godere allo stato di diritto di cittadinanza negli studi tassiani.12 Più che a un conteggio ovviamente aleatorio se non assurdo dei “tempi di composizione” del poema (giunto come si diceva al sesto canto nel 1566-1567),13 il successo dell’ipotesi cronologica “alta” è riconducibile a una doppia serie di circostanze: la presa in carico della testimonianza pur tarda di Gian Mario Verdizzotti, e la vulgata critica concomitante di una “rinuncia” pur provvisoria (per presa d’atto, da parte del giovanissimo autore, dei propri limiti a fronte di un compito così gravoso e complesso), con conseguente ripiegamento sul Rinaldo.14

La testimonianza del Verdizzotti, del 1585, e dunque ben posteriore alle principes della Liberata, coeva con l’avvio della polemica con l’Accademia della Crusca, e di un quarto di secolo distante dall’ipotetica confezione del Gierusalemme, deve la sua autorevolezza non certo alla rivendicazione dei diritti di un côté letterario e culturale, quello veneziano, e dei suoi protagonisti (Danese Cataneo, in primis15) a fronte di un capolavoro come la Gerusalemme: avocazione non inconsueta, quando si guardi ai paratesti di corredo già delle stampe di Parma e Casalmaggiore;16 quanto alla conferma di un dato essenziale di quella testimonianza (la confezione di mano del Verdizzotti di una copia del Gierusalemme) offerta dal Caretti per la via del riconoscimento dell’autografia verdizzottiana dell’unico testimone ms. superstite del Gierusalemme, l’Urbinate-Latino 413.17 Chiusa immediatamente la questione di un’autografia tassiana, invece, degli interventi di altra mano sul ms. (per l’assenza in primis di elementi di confronto adeguati con la mano del Tasso18), resta in verità un’altra questione, allo stato purtroppo indecidibile, la puntuale datazione cioè del ms. Urbinate-Latino. Manca infatti ogni possibilità di confronto con una pluralità di autografi verdizzottiani datati o databili agli anni Sessanta che ne permetta di definire con certezza la cronologia:19 essendo evidentemente cosa ben diversa, quanto meno ai fini della definizione dell’autorevolezza della testimonianza verdizzottiana nel suo complesso, la pura e semplice identificazione dell’Urbinate-Latino con la copia effettuata dal Verdizzotti nel 1559-1560 (per la verità, dopo il 1562, se ci atteniamo alla sua stessa testimonianza), o il riconoscimento in esso di una copia di mano del Verdizzotti effettuata in data incerta fra gli anni Sessanta e Ottanta, su un antigrafo rimasto a sua disposizione, e riesumato, mettiamo, proprio in virtù del successo della Liberata.20 Dubbio metodico direi legittimo, quando si guardi alla testimonianza del Verdizzotti nel suo complesso: quasi l’autore del Gierusalemme fosse davvero un apprendista incerto a fronte dei maestri veneziani,21 e non invece, come in realtà è, in possesso di strumenti sul piano metrico-stilistico e ancor prima dell’inventio e della dispositio che non hanno possibilità di raffronto nella situazione cinquecentesca posteriore al terzo Furioso. Né la presenza fra le carte Cataneo della Biblioteca Apostolica Vaticana, in un foglio sciolto, di un’ottava sul sito di Gerusalemme che transiterà, previa riscrittura, dal Gierusalemme alla Liberata22 aggiunge riscontri oggettivi all’indicazione verdizzottiana del Cataneo quale autentico mentore del giovanissimo Tasso impegnato nell’impresa del poema gerosolimitano: non certo perché il Tasso, non solo del Gierusalemme ma anche e soprattutto della Liberata, non sia debitore alla koiné epico-cavalleresca post-ariostesca, e anche all’Amor di Marfisa, di moduli stilistici, di giunture, di ipotesi di riscrittura dei classici, e anche e soprattutto di spunti pertinenti all’inventio adeguata alla nuova (e antiariostesca23) ambiziosissima instaurazione di una tradizione “eroica” in volgare,24 ma perché questa complessa rete intertestuale, ancora fruttuosamente indagabile nei suoi dettagli, pertiene sostanzialmente alla langue della tradizione cinquecentesca, e non certo alla parole del nuovo poema, rispetto a cui anche un’ottava “media” come quella di cui si discute (certo non ai vertici dell’impegno stilistico dello stesso Gierusalemme) spicca per la sua distanza rispetto agli esiti medi delle ottave del Cataneo. Ne risulta che, anche quando non si voglia derubricare l’autografia verdizzottiana dell’Urbinate-Latino, come pur si potrebbe, a semplice conferma di compatibilità fra le due mani,25 l’accettazione anche piena dell’expertise di Caretti nulla può dirci circa la corrispondenza del testo tràdito (pertinente con ogni evidenza alla fase più arcaica delle testimonianze mss. superstiti relative al poema gerosolimitano) con lo stato del testo del Gierusalemme all’altezza del biennio 1559-1560 presupposto (con le contraddizioni di cui si è detto) dalla testimonianza del Verdizzotti.26 V’è di più: due “note di servizio” del ms. Urbinate-Latino, direi certamente “d’autore”,27 paiono garantire che siamo comunque in presenza di una copia tratta da un antigrafo messo a punto a seguito di una rilettura critica operata dal Tasso sul testo incompiuto del Libro primo: una stesura “avanzata”, dunque, anche a prescindere dalle correzioni del testo base di cui è portatore il ms., i cui antefatti restano comunque al di là delle testimonianze superstiti.28

Situazione totalmente indiziaria, dunque, cui proprio per questo può esser lecito giustapporre un altro ordine di considerazioni. La dedica del Gierusalemme al duca di Urbino individua un arco cronologico troppo esteso per riuscire di qualche utilità: in sostanza, dall’arrivo del giovanissimo Tasso nel ducato sino al 1565,29 data del trasferimento di Torquato alla corte estense: e si ricorderà che negli anni universitari fra Padova e Bologna, quando da tempo Bernardo aveva interrotto il suo “servizio” urbinate, Torquato si considerava tuttavia “creatura” del Della Rovere.30 E tuttavia, rispetto all’ipotesi pur ricorrente (ma anche smentita con decisione) di una sostanziale congruenza fra l’ideologia tassiana della crociata e le intenzioni della Serenissima nel suo confronto a distanza coi Turchi,31 un’altra serie di dati “esterni” merita forse talune considerazioni aggiuntive. Certo, l’insegna araldica dei Bonarelli di Orciano valorizzata nel Gierusalemme, nel suo indicare lo stretto rapporto di quella famiglia coi Della Rovere, non necessariamente dipende dal privilegio ducale del 1559 che concedeva al favorito del duca di assumere accanto al proprio il cognome della famiglia ducale;32 certo, l’impresa personale del duca Guidobaldo (le tre mete) preesisteva alla realizzazione, in sostanziale concomitanza con il soggiorno pesarese di Torquato, dello stemma ducale sul portale del palazzo di Pesaro e sul camino della Sala degli Alabardieri;33 e in ogni caso i due riscontri non potrebbero valere, quand’anche cogenti, che in funzione della precisazione di un terminus post quem. Ma si badi alla presenza nel Gierusalemme da un lato di spunti antispagnoli piuttosto precisi (le truppe al seguito di Gusmano, ma soprattutto la presentazione di Ernando, non a caso fatta oggetto di velature successive lungo la storia redazionale del poema34), dall’altro dell’enfasi attribuita ai connotati “pan-italiani” delle schiere di Camillo (dettaglio anche questo oscurato nella Gerusalemme35) e anche del robusto stuolo di truppe “meridionali” che Tancredi gli ha affidato, dato cui corrisponde nella Liberata un manipolo assai più ristretto in termini geografici e numerici, senza dunque far più sistema con le altre truppe italiane all’interno della rassegna.36 Se una sincronia è possibile fra questi dati, sulla scorta della biografia del Tasso e soprattutto degli eventi della storia d’Italia fra il 1556 e il 1558, questa è rintracciabile all’altezza del 1557, quando la guerra fra Paolo IV Carafa e la Spagna, con l’occhio al vicereame di Napoli, è tuttora in corso, con esiti come si sa disastrosi, mentre Guidobaldo è capitano generale delle truppe pontificie. Nel settembre del 1557 si addiverrà all’armistizio di Cave (si ricorderà che l’abbandono di Roma da parte dei due Tasso, “banditi” dal Regno, e come tali particolarmente esposti a fronte degli avvenimenti bellici, avviene proprio in conseguenza dell’invasione dello Stato Ecclesiastico da parte dell’esercito del duca d’Alba37); l’anno dopo il duca di Urbino abbandonerà il suo incarico per assumere servizio proprio a capo delle truppe del Regno di Napoli38: finestra cronologica piuttosto precisa e ristretta per dare un qualche senso a un’altra testimonianza ben nota, e altrettanto discutibile come quella assai più tarda del Verdizzotti: la lettera cioè di Girolamo Muzio (al servizio del duca di Urbino dagli anni Cinquanta39), che nel 1566 dà conto al Bolognetti di un suo progetto di poema sulla prima crociata, poi tralasciato, e quindi della presa d’atto, quasi compiaciuta, del fatto che il giovane Tasso si fosse dedicato all’impresa.40 Sia il Verdizzotti che il Muzio, alla distanza di un ventennio l’uno dall’altro, sono evidentemente assai più interessati a bandire diritti di progenitura, propri o del côté culturale e letterario cui appartengono, circa l’impresa del poema gerosolimitano che a fornire o a ricevere dati precisi e credibili sul progetto del Tasso «figlio»: e si badi al fatto, sul versante del Muzio, che nella prima delle due lettere (14 settembre) pare indubbia una qualche vicinanza con una pagina celebre dei Discorsi dell’arte poetica;41 né d’altra parte in questa sede, come dovrebbe emergere con qualche evidenza da tutto ciò che precede, si intende proporre di spostare al 1557 (un Tasso tredicenne!) la cronologia del testo del Gierusalemme conservato dall’Urbinate-Latino. E tuttavia è significativo che nel Gierusalemme il tempo non del racconto, ma del narratore a quell’anno non possa non alludere, come in termini altrettanto complicati avviene del resto, stavolta sul côté estense, nell’Ercole del Giraldi Cintio.42

Lo stesso assetto della Liberata, a guardar bene, presuppone all’interno del campo crociato non solo (com’è ovvio) il “primato” francese, ma uno stretto coordinamento, per dir così, fra le truppe francesi e quelle italiane, solo marginalmente messo in crisi dalla ribellione di Argillano.43 Scomparse Venezia e la Spagna dalla scena del poema,44 la prospettiva “filofrancese” del Tasso, nonostante le molteplici velature pur riconoscibili,45 parrebbe innegabile, con l’occhio a una situazione italiana che è quella anteriore alla pace di Cateau-Cambrésis (agosto 1559).46 Certo, negli anni Sessanta molte cose sarebbero cambiate: il nuovo duca Alfonso II avrebbe dovuto far dimenticare i suoi trascorsi filofrancesi47 partecipando a fianco degli Asburgo, e con esiti disastrosi, alle guerre in Ungheria;48 il Tasso, a Ferrara dal 1565, avrebbe dovuto re-indirizzare agli Estensi il proprio poema; e tuttavia una sorta di “orologio interno”, nel Gierusalemme come nella Liberata, mantiene una qualche memoria delle attese e dei progetti politici degli anni Cinquanta, e soprattutto del quinquennio “carafiano” 1555-1559. A dir meglio, è come se nel frattempo l’assetto del poema avesse acquistato un proprio centro di gravità, relativamente insensibile agli avvenimenti esterni: opponendo a questi ultimi non nuovi equilibri (giudicati evidentemente o non necessari o impossibili), ma, al massimo, l’occultamento e il silenzio: appunto le “velature”. Lo spagnolo Ernando (Hernando) diviene così improbabilmente il Gernando della Liberata, discendente dei «re norvegi»,49con dislocamento delle sue origini all’estremo nord dell’Europa, che per la prima volta proprio nella Liberata fa la sua comparsa nel corpus tassiano (Sveno, soprattutto: e si ricordi del resto l’antefatto petrarchesco della canz. O aspettata in ciel, per la crociata del 133350), e conseguente “oscuramento” del pregnante senso politico che assumeva la sua “superbia” e il suo conflitto con l’italiano Ubaldo:51 ma questo, ed è la cosa più interessante, è ancora documentato in atto in una redazione superstite di fase alfa dell’attuale canto V del poema, che agli anni Sessanta non può che essere pertinente: dopo la pace di Cateau-Cambrésis, dunque, e la quasi concomitante morte di papa Paolo IV.52 O si pensi a rovescio alla battaglia di Lepanto del 1571: in anticipo sulla conclusione del poema (inverno 1574-75) tanto da permetterne eventualmente la menzione nel testo: contento quest’ultimo, invece, del doppio auspicio di una crociata guidata dal duca Alfonso (I 4-5 e XVII 90-95), confinata nel regno del possibile, e messa invece in crisi dalla “verità effettuale” della Lega Santa.53 Del resto, se è lecito ipotizzare, sulla base di quanto testimoniano le lettere coeve alla “revisione romana”, un modus operandi tassiano omologo anche per le fasi anteriori della messa in forma del poema, non si dovrà probabilmente cercare un riscontro puntuale e immediato fra le nuove “necessità” della Gerusalemme, se non altro in virtù delle tappe certe del servizio cortigiano del Tasso, e l’intervento correttivo d’autore sul testo in fieri. La biografia del Tasso anche in questo caso non può in sostanza che indicare al filologo un termine post quem, quando non soccorrano credibili testimonianze esterne: e sarà il caso della mutazione del dedicatario e dell’eroe eponimo (Ubaldo, come si è visto, ancora all’altezza della redazione superstite del canto V [IV],54 mentre Rinaldo è allo stato l’unico fra i crociati che seguono Armida destinato al tradimento e all’apostasia):55 mentre la dedica al duca Alfonso, e presumibilmente l’assetto attuale delle ottave proemiali,56 non può essere evidentemente anteriore al cambio “formale” di servitù del Tasso, dalla corte cardinalizia di Luigi a quella del duca (primo gennaio del 1572). Indizi, naturalmente, che configurano nel loro insieme non una parabola certa, ma una costellazione di dati che rappresenta il limite ultimo di “risoluzione”, per dir così, dei nostri strumenti d’indagine: a fronte del quale sarà forse da tener fede a un dato essenziale, per un’opera autorevolmente definita la «grande incompiuta» della tradizione letteraria italiana,57 e tuttavia capace subito a ridosso delle principes di costituirsi immediatamente a modello, e a modello durevole:58 un progetto “d’autore”, e una “fedeltà” d’autore, capace di travalicare il gioco delle committenze, gli assestamenti anche rilevanti dell’arte poetica,59 le complicate fasi della riscrittura, nel nome di una “volontà d’autore” che fa premio sulla cristallizzazione del testo, e che è il presupposto remoto della stessa fase tarda, pur nettamente distinta, della Conquistata. Non poco, non solo a fronte delle vicende delle edizioni a stampa della Gerusalemme (il poema res nullius di tante prefatorie e avvisi ai lettori), ma di etichette ricorrenti nella storia della critica tassiana, dal Tasso “vittima dei pedanti” a una Liberata poema cortigiano o poema della Controriforma: quasi prevalenti risultassero, in accezioni pur diverse, le coazioni e le occasioni esterne, e non la fiducia tassiana, questa sì di netto stampo umanistico, nel primato (anche a costo del fallimento e dello scacco) della poesia.

2. I connotati salienti dell’impianto narrativo del Gierusalemme sono da tempo acquisiti agli studi tassiani.60 Dopo le ottave proemiali, che nella costanza quantitativa degli spazi assegnati provvedono rispetto alla Liberata a un diverso conteggio delle funzioni della proposizione dell’argomento, dell’invocazione e della dedica,61 la narratio dà immediatamente conto (senza il “prologo in cielo” e il “prologo in terra” necessitati nella Gerusalemme dal resoconto in presa diretta dell’elezione di Goffredo a capitano generale62) della marcia di avvicinamento a Gerusalemme, e quindi dell’ambasceria di Argante e Alete e della rassegna generale dell’esercito crociato.63 La persistenza (fatti salvi fenomeni più limitati di trasposizione di cui si darà notizia nel commento) di un numero assai alto di ottave nella vulgata della Gerusalemme coesiste non tanto con un complesso lavoro di revisione, di ordine non solo stilistico,64 quanto con una evidentissima dilatazione della materia qui assunta nei primi tre canti della Liberata.65 È del resto ben noto che ancora all’altezza della “revisione romana” il Tasso avvertiva i suoi corrispondenti del rifacimento radicale a monte dei canti iniziali del poema.66 Per la verità, quando il confronto si sposti dal binomio Gierusalemme-Liberata alla costellazione cinquecentesca degli esperimenti postariosteschi di poema, si converrà sul fatto che fin da subito il Tasso nettamente opta, rispetto al “narrare” storico, per l’“imitare” poetico, come assai più tardi verrà chiarito sul piano teorico.67 La decisa scelta di un argomento di “storia vera”, che i Discorsi dell’arte poetica si incaricheranno di argomentare dettagliatamente,68 coesiste insomma (nonostante la forte presenza delle “fonti” sulla prima crociata a monte del testo69) non solo e non tanto con la «licenza del fingere», pur rivendicata,70 quanto con una vera e propria “messa in scena” del racconto: giustificazione da un lato dell’alto tasso di “sopravvivenza” della testualità del Gierusalemme nella Liberata, ma anche delle capacità di questo Tasso di governare una favola tecnicamente destituita di episodi,71 ma poi tutt’altro che digiuna sul piano stesso dell’inventio prima ancora che dello stile. La coralità dell’impresa72, lo slancio religioso e guerriero del pellegrinaggio in armi è poi capace di organizzare in una nuova sintesi i luoghi pur topici del poema narrativo: la rassegna geografica, l’ambasceria, i discorsi, la rassegna militare, la stessa presentazione dei personaggi e la loro gestualità. Se l’attenzione così caratteristica della Liberata per gli aspetti anche più “tecnici” dell’arte della guerra, e della stessa logistica, già ben presente nel Gierusalemme, fa senz’altro i suoi conti con l’antecedente di taluni almeno dei poemi postariosteschi del Cinquecento, a cominciare dall’Amor di Marfisa,73 va poi detto che anche il dettaglio dell’impazienza e dell’ansia notturna dei crociati, destinato poi a cadere, et pour cause, non è solo o soprattutto riprova dell’immaturità dell’autore (come definirla imperizia, a fronte di decine di ottave che resteranno ben riconoscibili nel nuovo impianto della Liberata?), quanto documento di un’adesione convinta a modelli epici (l’Eneide virgiliana, soprattutto, nel nome della brevitas74) che esplicitamente prevedono una sorta di ornatus della narrazione per la via di microepisodi in cui viene concretamente ad articolarsi la narrazione principale: narrazione poetica, e dunque imitazione, appunto, e non narrazione storica. Strumento cui del resto il Tasso non rinuncia, né potrebbe, quanto meno nelle scene di guerra della Liberata: e si pensi solo alla battaglia notturna del nono, e al dettaglio pazientemente inseguito della sorte di Latino e dei suoi figli,75 controcanto “tragico” al “patetico”, sull’altro fronte, dell’uccisione di Lesbino.76 E del resto, a rileggere le ottave della conclusiva rassegna militare, non ci si può sottrarre all’impressione che già qui, in nuce, il Tasso consapevolmente ponga le basi per l’introduzìone di veri e propri “episodi”: e sarà il caso non solo di Tancredi «immerso in profondissimo pensiero»77 (non per nulla nella Liberata, ma stavolta con decisa opzione per il versante puro e semplice della favola, la presentazione del personaggio darà da subito conto degli antefatti per più versi eccezionali di un amore «nato fra l’arme»78), ma anche di Ermiferro, la cui presentazione in qualche modo criptica deriva sì puntualmente dalla Historia di Guglielmo di Tiro,79 ma pare esigere altrove una specificazione e un dettaglio, magari per la via di una ricapitolazione delle res gestae anteriori alla marcia conclusiva verso Gerusalemme.80 E certo l’introduzione nei tre canti rifatti dell’episodio di Olindo e Sofronia (di volta in volta, e con fortune alterne, difeso e abbandonato nel corso della revisione romana81) avrà a suo tempo anche il senso di un diverso bilanciamento, anche prima del canto quarto,82 del rapporto tra favola ed episodi; e tuttavia la distanza, nel caso specifico, dai microepisodi di cui si diceva, di ornatus della narratio principale, potrebbe essere contestata quando, oltre alle difese del Tasso, si ponga mente alla natura teoricamente incerta di “episodio” di quella sequenza narrativa.83 Su questo doppio versante si gioca comunque da subito, almeno in potenza, quella dialettica fra “unità” e “varietà” (applicazione concreta della distinzione fra “imitare” e “narrare”84) cui in misura rilevantissima, com’è noto, si riconduce lungo tutta la carriera del Tasso, sul piano teorico85 ma soprattutto sul piano della concreta prassi della scrittura epica (o epico-romanzesca86), il tasso di innovazione rispetto ai modelli del poema gerosolimitano.

Difficilmente si converrà a questo punto con la vulgata critica di un “ripiegamento” tassiano all’altezza del Rinaldo, cui si è accennato più sopra.87 La stessa “sosta” dei giovanili Discorsi dell’arte poetica, per cui com’è noto è usufruibile un’esplicita testimonianza tassiana,88 è scarsamente riconducibile a una cronologia reale, e non puramente ideale, che guardi all’indietro al Gierusalemme come a un’esperienza interrotta.89 In tanta incertezza sulla facies dei Discorsi all’altezza dei primissimi anni Sessanta90 (che si accompagna come si è visto a dubbi forse non meno cogenti sul versante dell’Ur-Gierusalemme91), varrà semmai la precisazione che da un lato neanche la Liberata va esente da innovazioni sostanziali rispetto alla dottrina dei giovanili Discorsi,92 mentre dall’altro su punti centrali della teoria l’accordo fra Gierusalemme e Arte poetica è qualcosa di più di un auspicio.93 La Prefazione al Rinaldo è in ogni caso un consapevole ritorno indietro rispetto a quei presupposti teorici, con più di un sospetto di un’accorta regia autoriale che permetta intanto il lancio del nuovo “romanzo” chiudendo per il momento la porta a sostanziali discussioni di arte poetica94 che infatti saranno in larga misura al centro delle discussioni coeve alla “revisione romana”.95 Più in generale, varrà forse la pena di osservare che ancora per il Tasso (e per l’intera estensione della sua carriera letteraria) è possibile senza contraddizione giocare in contemporanea su tradizioni distinte di “genere”, senza che ciò implichi affatto “conversioni” sul piano della teoria e dell’arte poetica: con più che ragionevoli possibilità di accostare il binomio Gierusalemme-Rinaldo ad altri pur percepiti dagli studi specie di secondo Novecento, seppure in termini via via variabili con riferimento agli oggetti in causa e soprattutto alle stagioni della critica tassiana: Aminta e Liberata e, non trascurabile nonostante le incertezze della cronologia, il dittico Conquistata-Mondo creato del Tasso tardo.96 Anche a un autore meno avvertito del Tasso dovevano riuscire da subito di immediata evidenza i “tempi lunghi” del progetto gerosolimitano: e la tanto maggiore agevolezza del Rinaldo veniva incontro da un lato alle urgenze di un autore giovanissimo gravato per quel che possiamo intuire dal peso degli inediti (poema e discorsi) e più che desideroso di approdare alle stampe, e dall’altro a quelle di una “vita di relazione” (non solo di taglio cortigiano) che guardavano, attraverso e oltre Bernardo Tasso, all’ambiente veneziano e ai rapporti, effettivi o auspicabili, con la casa d’Este.97 Varrebbe anzi la pena, in questa prospettiva, di riaprire un cantiere sui rapporti Amadigi-Rinaldo-Liberata, come si sa del tutto speciali rispetto alle relazioni intertestuali che la Gerusalemme intrattiene con la koiné postariostesca della tradizione del poema in ottava rima,98 per verificare possibili congruenze, non solo di ordine strettamente stilistico, lungo l’asse Gierusalemme-Rinaldo, in equilibrio con i dati già disponibili sul versante opposto, Rinaldo-Liberata.

Per una volta, il problema critico ha evidentemente condizionato l’approccio filologico, e non viceversa: si pensi a cosa avviene, o dovrebbe avvenire, per la Liberata,99 o ai “silenzi” (per la verità imbarazzanti) sulle Rime.100 Non si comprenderebbe infatti, se non nel nome di una sostanziale alterità del Gierusalemme (un tentativo fallimentare insomma di approccio al tema gerosolimitano, che solo dopo il Rinaldo e i Discorsi dell’arte poetica potrà ripresentarsi, ma ex novo, sullo scrittoio dell’autore), l’esclusione dell’Urbinate-Latino 413 dal novero dei mss. di fase alfa, e insomma dalla storia del testo della Gerusalemme.101 Fatto tanto più singolare nella nota carenza di testimoni anteriori all’avvio della revisione romana e al conseguente invio a Roma dei canti singoli o di gruppi di canti da parte del Tasso:102 singolarissimo, quando si tenga conto della facies arcaica del canto V [IV] di cui si è detto più sopra.103 Pur in assenza di qualunque notizia sull’assetto dei primi canti del poema se non nei termini di una “struttura ristretta” (un canto in meno sino all’altezza della redazione conservataci del canto V [IV], e forse anche oltre104) e di un loro rifacimento pressoché radicale da parte del Tasso prima dell’ultimazione del poema (fine 1574-inizi 1575),105 pare evidente, ma proprio sulla scorta di un esame interno delle sequenze narrative del Gierusalemme e del loro contesto,106 una diretta continuità del lavoro testimoniato dall’Urbinate-Latino nella progressiva messa in forma del poema, sino appunto all’emersione delle congruenze di cui si è detto all’altezza della stesura superstite del canto V [IV]. Nel processo indiziario cui in sostanza si riduce in gran parte la ricostruzione della storia del testo della Liberata prima dell’avvio della revisione romana, la totale pertinenza del Gierusalemme alla fase più arcaica di quella storia pare difficilmente discutibile, e un conteggio accurato delle convergenze e delle distanze delle 116 ottave superstiti rispetto alla vulgata della Gerusalemme conferma semmai l’ampiezza dello spettro entro cui le opzioni dell’autore si svolgono lungo la messa in forma del testo prima del 1575. Di fatto, non esiste un Gierusalemme come testo o frammento a sé stante, ma un testimone arcaico, e perciò stesso prezioso, del Libro I del poema gerosolimitano del Tasso, quando ancora la partizione ipotizzata era in libri e non in canti:107 e come tale da mettere in sequenza con gli altri testimoni che conservano per singoli canti la facies del poema antecedente all’avvio della revisione romana.108

Sarà forse consentita anche in questa sede un’osservazione a margine.109 La tripartizione dei testimoni superstiti del poema tassiano così autorevolmente proposta a suo tempo (fasi alfa beta gamma110) acquista un senso preciso quando si tenga conto delle modalità concrete e progressive della ripresa da parte di Luigi Poma e poi della sua scuola della quaestio philologica della Liberata,111 a valle (ma su basi radicalmente nuove) delle vicende della filologia tassiana del secondo dopoguerra:112 “storicizzazione” direi ormai necessaria, a più di trent’anni dall’avvio di quella ripresa.113 L’identificazione del codice Gonzaga con Fr e non con F, l’esame autoptico del codice e il riconoscimento della sua straordinaria importanza veniva a segnare di fatto una sorta di spartiacque, rispetto a cui con fase alfa si poteva designare la costellazione variegata dei testimoni portatori di stesure e di lezioni anteriori alla confezione di Fr, e con fase gamma la fase più avanzata del lavoro del Tasso dopo la brusca interruzione della revisione romana.114 Non è qui necessario insistere, in quanto di immediata evidenza, sul valore radicalmente innovativo di quella tripartizione rispetto alle ricognizioni sul testo della Liberata degli anni Cinquanta e Sessanta, condotte per la verità sostanzialmente in assenza dei testimoni mss.115 Feconda innovazione, dunque, che ha dato, sino all’immatura scomparsa di Luigi Poma, un quadro di riferimento prezioso al lavoro di progressiva messa in forma di un’edizione critica del poema, fermatasi purtroppo alquanto prima della sua conclusione. Oggi, l’asimmetria di quelle tre fasi parrebbe evidente per varie ragioni. Ferma restando la sostanziale inattingibilità di una cronologia “reale”, e non relativa, fatta eccezione per l’ingente mole di dati recuperabile invece per la storia del testo durante la revisione romana dalle cosiddette Lettere poetiche,116 è di tutta evidenza infatti, rispetto al biennio 1575-76, l’indecidibilità da un lato della durata del lavoro di fase gamma,117 e dall’altro la lunghezza, pur nell’incertezza di cui si è detto del suo avvio,118 del lavoro di fase alfa. È, soprattutto, uno schema poco evidente ai fini dello stesso rilievo dell’importanza certo decisiva della revisione romana, rispetto a cui quel che davvero conta è l’evidenziazione, pur radicalmente lacunosa, sulla scorta dei testimoni superstiti, della facies ultima del testo prima dell’avvio della revisione: la volontà ultima del Tasso, si sarebbe tentati di dire (naturalmente provvisoria, come del resto tutto ciò che pertiene alla storia del testo della Liberata119), prima dell’avvio di un esame collegiale certo percepito ex ante come impegnativo, anche se nelle intenzioni destinato a concludersi, e positivamente, entro un arco di tempo relativamente breve. Si aggiunga la natura bipartita dello stesso testo base di Fr da subito evidenziata da Poma,120 dal momento che il codice Gonzaga per i primi dieci canti (ma non per i secondi dieci) conserva una redazione che già tiene conto delle innovazioni determinate dalla revisione romana, in sostanza con occultamento della facies di quella che potremmo definire “redazione 1575”. Ricorrono insomma le condizioni per la proposta di uno schema quadripartito: una fase alfa, cui concorrono i testimoni superstiti di uno stato del testo (per la verità, di porzioni limitate del testo) anteriore alla “redazione 1575”;121 una fase beta, coincidente appunto con la “redazione 1575”122; una fase gamma, dinamica e progressiva, coincidente con la revisione romana;123 una fase delta (Es3, Mt, Nb, stampa B1) per la messa in forma d’autore più avanzata del testo della Liberata.124 Dove, specie per le ultime due fasi, il criterio determinante per il futuro editore non potrà non essere ovviamente che la lezione dei testimoni, da incrociare certo con le dichiarazioni e i progetti d’autore conservatici dalle lettere, ma con netta e necessaria distinzione tra il fattibile (e magari auspicabile) e il fatto. La nozione stessa di “ultima volontà d’autore”, nel caso della Liberata, rischia infatti di generare equivoci, quasi la progressione degli interventi lungo i canti del poema potesse contare su un ne varietur per le sezioni precedentemente assestate, e assegnare al testo che ne risulta non lo stato di un work in progress, ma quello, ben diverso, di una cristallizzazione del testo: quando tutto ciò che sappiamo sulla fase più documentata del lavoro tassiano (la fase della “revisione romana”) dimostra al contrario il prevalere da un lato di “strategie” locali”,125 che quasi inevitabilmente risolvono aporie specifiche introducendone di nuove, e dall’altro il ritornare (all’insegna di istanze ulteriormente migliorative, ma anche del riaffacciarsi di soluzioni precedentemente scartate126) sui risultati della revisione già effettuata. Esemplari, nelle diverse direzioni, i casi della “timidezza” di Erminia nel VI,127 o dei destini via via ipotizzati per l’episodio di Olindo e Sofronia:128 con l’addendum, se si vuole, del cadere già nel codice Gonzaga della riconciliazione finale fra Rinaldo e Armida129 (complanare del resto con l’ipotesi opposta di “accompagnare” oltre i limiti del canto XIX il personaggio di Erminia, magari a fini edificanti130), quasi che la tensione che nelle strutture del poema ingenera a partire dal quarto canto l’introduzione del personaggio possa assestarsi con la semplice rimozione della scena conclusiva, e non generi invece un “eccesso” lungo tutto il poema, dal quarto al quattordicesimo, e poi soprattutto nei tre canti “legati” XVII e XIX-XX, la “vendetta di Armida” e i campioni di lei,131 rispetto a cui la finale riconciliazione svolgeva sì la funzione di un (inatteso?) happy end, ma anche di punto di arrivo di una fuga prospettica che solo la Conquistata si incaricherà di troncare.132 Lo status di «grande incompiuta» della Liberata133 sta decisamente anche qui: e alla nozione a suo modo rassicurante di un’“ultima volontà d’autore” occorrerà probabilmente sostituire quella, altrimenti frustrante, di volontà d’autore recenziore.

3. Non è certo per sottovalutazione dell’importanza di un simile tipo di ricerche che sin qui si sono privilegiati i rapporti che il testo del Libro I intrattiene con la Liberata piuttosto che con gli antecedenti della tradizione postariostesca del poema narrativo. Ezio Raimondi, a suo tempo, assai opportunamente insistette, sul piano dello stile e della stessa giacitura dell’endecasillabo (sia pure con tutte le differenze del caso), sull’antefatto necessario non solo dell’Amor di Marfisa e soprattutto dell’Amadigi, ma anche dell’Italia liberata trissiniana.134 Talune di quelle indicazioni andranno probabilmente rivisitate, con l’occhio a un range più ampio della tradizione cinquecentesca, ma nel complesso quella ricognizione dei primi anni Sessanta rimane una delle più agguerrite e ahimé recenti rivisitazioni della partita doppia che il Tasso, tutto il Tasso “epico”, intrattiene con i “classici”, i modelli insomma greco-latini, e con i “moderni”, Dante e Petrarca in primis, ma poi la tradizione lirica cinquecentesca e la tradizione del “romanzo”: Ariosto,135 soprattutto, e poi i poemi postariosteschi.136 Si ha anzi l’impressione che proprio su quest’ultima direttrice siano ancora possibili acquisizioni di rilievo per la stessa Liberata. Se qui e nel commento al testo tale zona di intertestualità risulta messa a frutto in termini tutto sommato modesti, ciò avviene semmai nel nome di una istanza di verifica complessiva e di un’analisi per dir così differenziale che tenga conto dell’intero iter del poema gerosolimitano, e dell’entrata progressiva nello scriptorium del Tasso di autori e testi della tradizione postariostesca.137 È una situazione omologa a quella verificabile, sempre a partire dal saggio di Raimondi,138 ma stavolta sul piano dei “contenuti”, nei rapporti del poema tassiano con le “fonti” sulla prima crociata: Guglielmo di Tiro in primo luogo, largamente e direi fedelmente usufruito già nel Libro I, ma poi Roberto Monaco e cronisti minori.139 Ma inevitabilmente è alla transizione dalle sequenze narrative del Libro I alla Liberata che non può non essere rivolta in primis l’attenzione insieme filologica e critica degli studi tassiani: non certo ad excludendum, ma per ragioni per dir così di urgenza e assieme di certezza, con un privilegiamento direi necessario, allo stato, delle ragioni dell’intratestualità. Un principio di “economia” governa largamente il riversamento nella Gerusalemme delle ottave del Libro I: non solo per le sequenze sostanzialmente conservate nei canti I-III,140 ma anche per ottave isolate (il vessillo crociato, l’elmo che sarà di Solimano141): riuso e se si vuole “cannibalizzazione” che dice parecchio su talune costanti del lavoro tassiano nella messa in forma del poema gerosolimitano, se direttrici analoghe (anche se con risultati tanto più impegnativi) sono riscontrabili persino nel tardo lavoro in margine alla Conquistata (le ottave del XX della prima Gerusalemme sulla morte di Solimano142). Un bell’esempio della “diffrazione” del testo che ne consegue è probabilmente riscontrabile nel riuso di un dettaglio della rassegna militare che conclude la porzione pervenutaci del Libro I.143 Qui, e certo a titolo di istanze di riequilibrio con la pur insistita varietà delle truppe provenienti dall’Europa,144 il Tasso presenta, all’insegna di una radicale “diversità”,145 la divisa e le armi dell’unico cavaliere orientale censito fra gli «erranti guerrier»,146 quell’Ermiferro la cui presentazione come si è visto147 direttamente rinvia alle vicende della presa di Antiochia narrate da Gugliemo di Tiro:

Segue Ermiferro, e non ha ’l braccio carco
Di scudo, né di svpada adorna il fianco,
Ma gli suonano a tergo i dardi e l’arco,
E gli pende la mazza al lato manco.
Di cimiero e di piume ha l’elmo scarco,
Candide l’armi sono e ’l destrier bianco,
E mostra ancora alta letizia in viso
D’aver con man pietosa il frate ucciso.148

Ottava, e personaggio, certo marginale, e destinati infatti a cadere nella successiva storia redazionale del poema. E tuttavia non solo il Tasso non rinuncerà a un’immissione “orientale” fra gli attori della Liberata, pur derubricandola prudentemente (da Antiochia alla grecità bizantina: con l’acquisto oltretutto di una diversa auctoritas per l’appunto di matrice storica all’inserzione149), ma non casserà in toto alcune delle soluzioni stilistico-metriche messe a punto per il dettaglio delle armi, se nel canto V [IV] di fase arcaica ricorre la presentazione dei «trecento» che Goffredo assegna ad Armida:

Gli ammonisce quel saggio150 a parte a parte
come la fè de’ Mori è incerta e lieve,
e mal securo pegno; e con qual arte
l’insidie e i casi avversi uom schivar deve;
ma son le sue parole al vento sparte,
né consiglio d’uom sano Amor riceve.
Loro accommiata al fine e la donzella,
e trecento altri ancor manda con ella;

trecento cavalieri in Grecia nati,
che son di ferro men de gli altri carchi:
pendon spade ritorte a l’un de’ lati,
sonano al tergo lor faretre ed archi:
asciutti hanno i cavalli, al corso usati,
a la fatica invitti, al cibo parchi:
ne l’assalir son pronti e nel ritrarsi,
e combatton fuggendo erranti e sparsi.151

Il Tasso, come si sa, ritornerà con decisione su queste scelte di Goffredo nel corso della revisione romana,152 mettendo al riparo il «capitano» dalle accuse di imprudenza nell’aver comunque distolto parte delle sue truppe per appoggiare un’impresa di cui, come si è visto, non può dichiararsi in tutto persuaso. Il testo che ne risulta espunge infatti totalmente il dettaglio: malvolentieri Goffredo cede all’insistenza degli «avventurieri», ricorrendo all’estrazione a sorte,153 ma ai dieci estratti molti altri si associano di notte e di nascosto (come del resto nel canto V [IV]154) subornati dalle insidie amorose di Armida:155 ne risulterà il drappello dei cinquanta che, con Tancredi, avrà un suo ruolo nella definitiva sconfitta di Solimano nella battaglia notturna del IX.156 E tuttavia l’istanza strutturale permane, come pure il riuso delle stanze espunte. Solo ora, con tutta evidenza, nella rassegna del primo canto può darsi conto di una presenza pur minima157 di «Greci», amplificata dalla condanna dell’ostilità bizantina nei confronti dell’impresa crociata,158 secondo stereotipi non inconsueti in Occidente, a fronte non dell’indifferenza, ma della partecipazione attiva della cristianità occidentale, almeno a partire dalla crociata del 1201, alla dissoluzione dell’impero romano d’Oriente:

Venian dietro ducento in Grecia nati,
che son quasi di ferro in tutto scarchi:
pendon spade ritorte a l’un de’ lati,
suonano al tergo lor faretre ed archi;
asciutti hanno i cavalli, al corso usati,
a la fatica invitti, al cibo parchi:
ne l’assalir son pronti e nel ritrarsi,
e combatton fuggendo erranti e sparsi.

Tatin regge la schiera, e sol fu questi
che, greco, accompagnò l’arme latine.
Oh vergogna! oh misfatto! or non avesti
tu, Grecia, quelle guerre a te vicine?
E pur quasi a spettacolo sedesti,
lenta aspettando de’ grand’atti il fine.
Or, se tu se’ vil serva, è il tuo servaggio
(non ti lagnar) giustizia, e non oltraggio.159

Fiducia piena in compenso, da parte del Tasso, come si è accennato più sopra,160 nelle capacità di “riequilibrio” del testo poetico: una concordia discors, anche qui, non solo fra le istanze stilistico-retoriche che presiedono ai diversi “tempi” del poema, ma anche fra le diverse allures del discorso epico, infatti tuttora percepibili nella vulgata: e si pensi al timbro squillante delle ottave della marcia di avvicinamento a Gerusalemme161 a confronto con le intenzioni raziocinative di non pochi degli “aggiustamenti” della revisione romana,162 alle agudezas di uno strato difficilmente databile, allo stato, dell’elaborazione della Liberata163 a fronte dell’indugio lirico di molte e molte delle sequenze “amorose” e all’insegna del carpe diem.164 Varietà di timbri e di allures che in termini meno vistosi ricorrono del resto anche nel Libro I: né si saprebbe se non in questa chiave, di prassi poetica intanto, e presto di scelta consapevole sul piano teorico,165 dar conto della compresenza nelle 116 ottave superstiti della tensione “epica” della sequenza del pellegrinaggio in armi verso Gerusalemme,166 e poi della perizia retorica, adulatoria e insieme minacciosa, del discorso di Alete,167 cui nella risposta di Goffredo corriponde il “vibrato” epico-religioso di un’altra tensione, irrisolta, alla vittoria o al martirio.168 È con questi risultati che la critica tassiana deve intanto fare i suoi conti, interrogandosi sul numero dei poemi epici postariosteschi suscettibili di scrutinio in questa direzione (o più in genere sul versante della capacità di un Tasso comunque giovanissimo di “chiudere” l’ottava, meglio, di “narrare” in ottave169): quando, anche solo sul versante dei “discorsi”, che sarà così caratteristico della Liberata, nulla di simile è rintracciabile nel Cinquecento italiano, fatto salvo l’Ariosto.170 Lo stesso lavoro tassiano in margine al poema coevo alla revisione romana non può, credo, essere valutato a pieno se non nel nome di questa singolarissima propensione tassiana ad acquisire per intero agli equilibri dinamici di una unità-varietà di taglio sia narrativo che stilistico il portato di una storia redazionale così complessa: da rivisitare certo punto per punto sulla base soprattutto del “verosimile” e del “decoro”,171 ma nella fiducia che le acquisizioni via via raggiunte possano comunque coesistere in un sistema di controspinte in grado non di mettere in crisi, ma di potenziare il principio centrale dell’e pluribus unum.172 L’interruzione non della revisione romana, ma del lavoro in margine al poema (la fase delta173) fa necessariamente i suoi conti, oltre che con le vicende biografiche dell’autore, in primis con un venir meno della fiducia del Tasso nelle possibilità di un simile equilibrio dinamico e vorrei dire energetico. Un’istanza non di “unità”, ma di “uniformità” che evidentemente esige già a livello di progetto una sostanziale riscrittura del testo, fuori portata per il Tasso quanto meno del biennio 1578-79.174 Seguirà la reclusione di Sant’Anna, e la pletora delle stampe al di fuori del controllo dell’autore.175 La sospensione di un decennio nel lavoro attorno al poema innesta, alla ripresa, ed è cosa nota, la riscrittura della Conquistata.176 Uno degli scopi non ultimi dell’edizione critica, così a lungo attesa, della «grande incompiuta», la prima Gerusalemme (edizione critica, si aggiunga, che non potrà prescindere da un minuzioso e difficile scrutinio di loci singoli, vista la condizione di trasmissione del testo più avanzato da parte dei testimoni Es3 Nb B1),177 sarà anche quello di permettere un approccio critico alla Liberata in cui esame stratigrafico e sincronico non vadano disgiunti.178 Con un auspicio finale, questo sì di ordine prettamente filologico: una nuova recensio dei testimoni mss. che permetta almeno di escludere, in un lavoro così delicato a margine di uno dei capolavori indiscussi della tradizione italiana, l’assenza di lacune significative nel lavoro compiuto ormai centovent’anni fa da quell’infaticabile cacciatore di carte e cimeli tassiani che fu Angelo Solerti: sui cui risultati (salvo eccezioni pur di assoluto rilievo, a cominciare proprio da N179) in sostanza si fonda, allo stato, la puntuale classificazione dei testimoni procurata negli scorsi decenni da Luigi Poma e dalla sua scuola.

Guido Baldassarri