VI

IL CINQUECENTO ITALIANO

Nell’Italia del Cinquecento l’honestum/utile ebbe una vitalità sconosciuta in altre culture. I motivi sono facilmente intuibili: il paese era stato la culla dell’Umanesimo e nel complesso, insieme con la Spagna, rimase compatto attorno alla religione cattolica e alla sua morale che, come sappiamo, dava moltissima importanza alle virtù cardinali. In Italia la cultura dell’onestade, con il suo spiccato senso del bello in sé e del decus armonioso, riuscì a produrre fenomeni non effimeri che caratterizzarono in buona misura quella cultura della grazia tanto ammirata dagli stranieri e che ancora oggi conserva un luogo particolare nell’immaginario occidentale come cifra di bellezza idealizzata e disinteressata. Sennonché l’onestade cinquecentesca si portava dentro un’insidia che celò come meglio e più a lungo che poté, ma alla fine manifestò il suo volto con il risultato di ridurre quel fondamentale valore culturale ad un’immagine pressoché vuota. L’insidia era l’utile, proprio la componente che per secoli era stata parte intrinseca della vera onestade in un equilibrio che nei suoi momenti migliori sembrava inossidabile. Il fenomeno fa già capolino alla fine del Quattrocento, quando l’utile comincia a mostrare tendenze all’autonomia, a primeggiare e addirittura a rompere un connubio durato per secoli.

In questo capitolo cercheremo di vedere le vicende che portarono alla dissoluzione della coppia gloriosa. In una prima sezione documenteremo la sua presenza ubiqua, ma vedremo anche come non abbia più quella solida valenza di ideale e vada perdendo progressivamente la sua vitalità culturale così feconda nel Quattrocento: la coppia si mantiene unita per molto tempo, ma si capisce che non era più in grado di rendere alcun frutto riconoscibile con i parametri antichi. A conferma di questo progressivo indebolimento vedremo che la nozione di honestum/utile si arroccherà nei trattati di stampo accademico, che per propria natura tendono ad essere conservatori o quanto meno a conservare le tradizioni. Per seguirne meglio tale processo di esaurimento, procederemo affrontando l’argomento per settori, rivisitando i temi in cui la coppia aveva dominato: sono i temi del “principe”, della “corte”, degli “studi” e dei rapporti sociali in genere, anche se non in quest’ordine. In una sezione finale indagheremo sulle conseguenze di questa dissoluzione e su ciò che venne a colmare il vuoto lasciato dalla rinuncia alla ricerca del bene in sé.

Persistenza dell’honestum/utile.

Un modo semplice per attestare la persistenza dell’honestum/utile è ricorrere alle raccolte di “loci communes”, a quel genere di opere o di sussidi euristici che informarono la cultura rinascimentale. La prima, in ordine cronologico e d’importanza, è la Polyanthea di Nanni Mirabelli. Qui alla voce Honestas, vediamo che l’honestum è l’equivalente del greco to kalòn, e lo si definisce con il classico passo di Cicerone: «Honestum est id quod tale est ut detracta omni utilitate vel tam premiis fructibusque per se ipsum possit iure laudari» (ed. Basilea, 1512, fol. CIv). Per chi non conoscesse la Polyanthea ricordiamo che questa raccolta di “citazioni” fu pensata e realizzata da Nanni Mirabelli; stampata a Savona per la prima volta nel 1507, fu poi – rassettata, corretta, ampliata, modificata in vari modi – pubblicata in varie nazioni un’infinità di volte fino alla fine del Seicento. Il suo successo fu enorme, ed era l’opera che stava sullo scrittoio di studiosi e autori i quali in essa potevano attingere citazioni classiche su un tematica vastissima, organizzata per voci ordinate alfabeticamente. Le citazioni seguono un ordine costante: prima quelle ricavate dalla Scrittura e dai Padri della Chiesa, quindi quelle ricavate dal mondo antico, sia greco che latino. Nel nostro caso specifico, ad esempio, dopo la definizione iniziale di Cicerone, troviamo le definizioni che riguardano la “pulchritudo spiritualis”, basate sull’Ecclesiastico e sant’Agostino e su altri autori. Alcune voci coprono varie pagine di citazioni, e in questo modo il repertorio di Mirabelli offre uno sguardo d’insieme sulla storia di un termine o di un concetto e sugli autori che li trattano.

Vicino alla metà del secolo potremmo citare il Thesaurus ciceronianus di Mario Nizolio, pubblicato per la prima volta nel 1536 ma ristampato varie volte. Il dizionario ebbe un grande successo, e non solo presso i “ciceroniani” che nel Cinquecento continuarono il “purismo” di umanisti come Cortesi. Nell’edizione di Basilea (Episcopo 1576) la voce honestum con tutti i rimandi a Cicerone occupa ben due colonne (650-651).

Verso la fine del secolo troviamo il Seminarium totius philosophiae di Giovan Battista Bernardi (Venezia, Zenati, 1582-1585) in tre volumi, i primi due dedicati ad Aristotele e ai suoi commentatori, e il terzo a Platone e ai suoi commentatori. Alle voci “honestum” ritroviamo una raccolta di definizioni del concetto e delle sue varianti.

Si obietterà che i dizionari sono scarsamente significativi e che sono poco più che depositi di luoghi comuni. L’obiezione è valida; tuttavia i luoghi comuni proprio perché non sono originali garantiscono la comunicazione, e attestano che nel linguaggio del tempo la nozione prevalente dell’onesto era quella del bello disinteressato e della bellezza spirituale, e comunque di un valore che inglobava l’utile a patto che fosse ridotto a un grado di perfetta compatibilità con il bello. E se i dizionari non testimoniano a sufficienza la diffusione della nozione, possiamo ricordare i “manuali”, ossia quei testi che perpetuano e commentano le opere maggiori in cui quella nozione viene presentata.

All’inizio del secolo possiamo addurre la testimonianza di Pietro Tartareto:

Honestum potest capi multipliciter. Uno modo formaliter, et sic dici quod honestum est quid sua vi nos trahit et sua dignitate nos allicit. Et istud proprie est nisi ipsa felicitas, quam omnes tam boni quam mali naturaliter desiderant, et ad quam vel ad eius similitudinem tam boni quam mali dirigunt suas operationes. Alio modo capitur simpliciter: et sic dico quod omnia quae dicunt perficere animam dicunt honesta: sicut scientiae virtutes et actus virtutum. Et licet felicitas sola sit primum et principaliter honestum tantum virtutes etiam morales et earum operationes dicunt honeste secundum seipsas: et hoc tam propter propinquitatem quam habent ad felicitatem quam propter hoc quod perficiunt animam et ipsam reddunt simpliciter bona licet forte non optimam, et etiam quae per se ipsas sunt eligibiles.1

[L’onesto si può considerare in molti modi. In un modo formale, e allora si dice che onesto sia quello che ci attira per la sua forza e che ci seduce per la sua dignità. E questo, a voler dire propriamente, non è altro che la stessa felicità che tutti, sia buoni che cattivi, desiderano naturalmente, e verso la quale o a qualcosa di simile rivolgono le proprie azioni sia i buoni che i cattivi. Secondo un altro modo viene inteso in maniera semplice: e così chiamano oneste tutte le cose che migliorano l’anima: così le scienze, le virtù e le azioni delle virtù. E benché la felicità soltanto sia il primo e principale onesto, anche le virtù morali come le loro azioni si chiamano oneste secondo se stesse: e questo sia per la vicinanza che hanno con la felicità sia perché perfezionano l’anima e la rendono semplicemente buona anche se non proprio ottima, e anche queste sono eleggibili per se stesse.]

E alla fine del secolo potremmo ricordare Jason Denores per la sua In Marci Tullii Ciceronis universam philosophiam de vita et moribus brevis et distincta institutio, del 1581 (Padova, Meietti). Denores non solo riassume il pensiero di Cicerone differenziandolo da quello degli stoici e dei peripatetici, ma lo schematizza presentando delle tavole in cui, seguendo uno schema tripartito, mette in luce la struttura delle varie opere ciceroniane. Al De officiis dedica due tavole (c. 69v e 70r) e la prima ha la seguente intestazione: «Eius philosophiae partis, quae versatur in officiis tradendis, quae nos servantes, et secundum ea viventes, perveniemus ad iam statutum et confirmatum summum bonum, hoc est ad naturae humanae convenienter vivendum», cioè: «[Libro] su quella parte della filosofia che tratta dell’esercizio dei doveri; se li osserviamo e se viviamo assecondandoli, perveniamo a quel sommo bene che è già stabilito e confermato, ed è il vivere in modo proprio della natura dell’uomo». Non era un’affermazione diversa da quella che avrebbe fatto un umanista ai primi del secolo, il quale accettava l’esistenza di un sommo bene umano e di un sommo bene eterno. Ciò che un umanista del tardo Quattrocento o del primo Cinquecento non avrebbe fatto era costruire delle tavole sinottiche che in Denores forse risentono dell’influenza “ramista” a cui abbiamo accennato ricordando il commento di Clictoveo allo Stapulense, e fu una tecnica molto apprezzata dalla tradizione pedagogica luterana.

Si obietterà che questi testi e “manuali” appartengono alla scuola, ma l’obiezione ha poco peso; semmai è ovvio che le nozioni sull’honestum/utile prendevano autorevolezza dalla scuola, e grazie ad essa entravano in circolazione in tanti modi e arrivavano a periferie dove magari si perdeva il senso della loro origine. Nel complesso, dunque, commenti accademici e dizionari contribuivano a tener viva la nozione dell’onestade e a diffonderla aggiungendovi una consapevolezza che le conferiva dignità.

Se cerchiamo attestazioni più robuste e più ragionate di quanto non possano essere le definizioni dei vocabolari o dei repertori di luoghi comuni, prendiamo un passo di un filosofo:

Proinde praeclara, ac luculentissima in principe est honestas, qua eius animus firma electione ea omnia agere constituat, quae secundum virtutem sunt. Hanc Zeno Eleates ingenij praestantiam esse existimavit, et hanc solam, bonum appellavit, quandoquidem haec una virtutum omnium summam in se complectitur. Aristoteles vero id honestum esse putat, ex quo splendor aliquis, atque illustris honor in eos perveniat, qui id gesserint. Quam in sententiam veniunt Platonici, dicentes id honestum esse, detracta omni utilitate, sine ullis praemiis fructibusve per se ipsum possit iure laudari. Honestatem ergo principi convenire eo probatur, quod qui honesti principes sunt, se ipsos cognoscunt, ut ait Socrates apud Platonem, aliena relinquunt, quae minus utilia, ac necessaria sunt: et in primis cogitant se solos ex omnibus animalibus rationis compotes esse. Haec, ut arbitror, divinae mentis munera omnibus principum honestis actionibus adiicienda, atque accumulanda sunt, et ut honestum praecipue vitae genus eligant, per quod non modo viaticum huius terrenae peregrinationis assequantur, sed etiam ab omni vitiorum labe ac turpitudine immunes ac liberi sint, et universos cives quibus cum versantur, instituant, nedum sibi ipsis noceant. Hac virtute praestit Sertorius, qui honestatem etiam in conviviis servabat: salibus nec videre quicquam turpe, aut audire unquam poterat, suisque persuaserat ut ab omni maledicto atque scurrilitate abstinerent, certarentque inter se placitis, facetisque iocis.2

[Perciò nel principe è chiara e risplendentissima l’onestà per la quale decide con ferma determinazione di fare tutte le cose secondo virtù. Zenone di Elea la considerò come un’eccellenza dell’ingegno, e questa soltanto chiamò “bene” giacché solo in essa si contiene la somma di tutte le virtù. Aristotele veramente pensa che l’onesto sia ciò dal quale viene un certo splendore e un qualche illustre onore a quelli che lo praticano. In questa opinione convengono i platonici i quali dicono che l’onesto è quello che, una volta detratto ogni utile e senza alcun premio o frutto, per se stesso è giustamente da lodare. Che l’onesto si convenga ai principi è provato dal fatto che i principi che sono onesti, conoscono se stessi, come dice Socrate presso Platone, trascurano le cose estranee, che sono meno utili e necessarie: e in primo luogo pensano di essere, soli fra tutti gli animali, padroni della ragione. Questi doni della mente divina, penso, siano da aggiungere e da accumulare a tutte le azioni oneste dei principi, e perché scelgano specialmente un onesto genere di vita, grazie al quale non solo abbiano un buon viatico in questa peregrinazione terrena, ma anche per essere immuni da rovine e turpitudini, per educare i cittadini con i quali convivono affinché non nuociano a se stessi. In questa virtù eccelse Sertorio, il quale manteneva la propria onestà anche nei conviti, non potendo mai né vedere né sentire alcunché di turpe, e persuase i suoi amici ad astenersi da ogni maldicenza e scurrilità, e ad affrontarsi con piacevolezze e giochi faceti.]

Il passo è ricavato da Agostino Nifo, non un filosofo qualunque e non da una sua opera qualsiasi. Agostino Nifo era un pensatore eclettico e sensibile alle mode e al successo, ora averroista ora platonizzante ora avverso a Pomponazzi ora propenso ad accettarne alcune tesi materialiste. L’opera dalla quale ricaviamo il passo è di natura politica ma non è la sua opera maggiore: questo titolo spetta al De regnandi peritia (1523) sulla quale, però, grava il sospetto che sia una riscrittura o addirittura un plagio del Principe di Machiavelli, in quegli anni circolante ancora in forma manoscritta.3 L’opera dalla quale scerpiamo il passo è il De principe (1525) su cui non è stato avanzato alcun sospetto di plagio, benché la sua originalità sia scarsissima, essendo un trattatello sulle virtù del principe sulla linea dei tanti altri simili prodotti dalla cultura umanistica. Per noi l’eclettismo e la scarsa originalità sono due pregi perché presentano i vantaggi dei luoghi comuni, ossia di un sapere o di nozioni tanto diffuse per cui è difficile indicarne la paternità. In effetti, nel passo trascritto vediamo rappresentate le tre scuole maggiori: quella stoica della “rigida onestade” con la menzione di Zenone; quella aristotelica che pone l’honestum come uno dei beni (la virtù) insieme al giocondo e all’utile che motivano le azioni dell’uomo; e quella ciceroniana o platonico-accademica che contrappone l’honestum all’utile. Sono le tre varianti dell’honestum/utile che domineranno il Cinquecento e chiuderanno il secolo in un tentativo supremo di concordia, quando sarà chiaro che nessuna di queste varianti era riuscita a prevalere nettamente, e quando il metterle d’accordo sembrava la soluzione più saggia per assicurare la vitalità ad un criterio morale ormai in via di estinzione. Ed è utile ricordare la scarsa originalità dell’opera perché si cerca ancora una volta di dare un contenuto “concreto” all’onestade impersonandola nella figura guida del principe, modello visibilissimo e autorevolissimo di comportamento morale. Ai primi del Cinquecento, dunque, l’honestas era una nozione che designava un ideale di vita virtuosa e pertanto felice: il fatto poi che fosse “rigida” o che fosse “umana” nel senso che comportava anche l’utile e il piacere, oppure che fosse opposta all’utile o al turpe rimanevano questioni sottili da filosofi. La definizione così ampia data da Nifo lascia intendere che l’onestade era un ideale di vita che informava una cultura.

Alla fine del Cinquecento possiamo trovare la stessa situazione di eclettismo con varianti che nel complesso conservano sostanzialmente inalterata la nozione dell’onesto/utile. Un caso macroscopico si rinviene nell’Universa philosophia de moribus di Francesco Piccolomini, pubblicata nel 1583 e poi nel 1594 con notevoli mutamenti. L’opera è generalmente ritenuta una delle più importanti sistemazioni dell’etica nel Cinquecento, e, stando alle dimensioni dell’opera, tale affermazione è inoppugnabile.4 Essa non riguarda solo l’honestas, ma è dedicata anche ad altri temi centrali nella cultura cinquecentesca, comunque rotanti attorno all’onestade: l’onore, la fortuna, la libertà, le “virtù eroiche” e infine la stessa letteratura etica e il suo ruolo nella vita civile. A quest’ultimo tema viene dedicato l’intero decimo “gradino” intitolato «Virtute per urbes et respublicas effundenda, summoque bono propagando» (p. 711). Divisa in dieci “gradini” l’opera sembra ispirarsi anche in questa struttura ai dieci libri dell’Ethica aristotelica, però, non è in modo alcuno un commento a quella, bensì un tentativo dottissimo e sottile di “concordare” l’insegnamento aristotelico con quello platonico, e in questo senso i risultati sono un certo eclettismo non molto diverso da quello visto in Nifo. Tuttavia le operazioni sono ben diverse e non solo per l’attenzione al tema specifico della possibile convergenza dei sistemi filosofici. Piccolomini prende in considerazione tutti i sistemi filosofici conosciuti ai suoi giorni, ma poi sostanzialmente si limita a vedere se i due sistemi maggiori finiscano per essere d’accordo sulle linee sostanziali e se queste a loro volta coincidano con la morale cristiana. Egli conosce benissimo la tradizione stoica ma la liquida con poche obiezioni almeno per quel che riguarda l’honestum. L’occasione migliore per trattarlo si ha nel “gradino” nono, De summo bono, dove l’honestum degli stoici è ricordato come “sommo bene” e in quanto tale confutato. Per Piccolomini le virtù sono un mezzo per attingere il sommo bene, sia inteso come felicità (eudaimonia in termini aristotelici) sia come contemplazione della divinità, come vuole la tradizione neoplatonica. Tuttavia Piccolomini è consapevole del fatto che questi tipi di sommo bene siano pressoché irraggiungibili, e nessun trattato di morale è mai riuscito ad indicare il modo di realizzarlo. Nel primo capitolo del decimo libro, De fine virtutum, nempe de summo bono (p. 645), l’autore dice di non aver conosciuto persona alcuna che abbia raggiunto quel “sommo bene”, e quanti dicono di essere felici non sanno cosa sia la vera felicità. «Foelicitatem interna quadam Naturae commotione profecto novi omnes, felicem vero in hoc mortalium orbe hactenus neminem novi» [«So per certo che tutti gli uomini, per un moto naturale interiore, desiderano la felicità, ma fino ad ora non ho conosciuto nessuno in questo mondo che possa dirsi felice» (p. 645)]. Tuttavia il fatto che sia pressoché irraggiungibile non toglie che se ne indichi la natura e si cerchi di definirla perché sarebbe impossibile vivere una vita morale senza un’idea del “fine ultimo” del nostro agire. Il che equivale a dire che il sommo bene è “un ideale”.

Quest’affermazione è molto importante per il nostro discorso perché implica la consapevolezza di un certo naufragio della morale tradizionale, la quale ha sempre additato la felicità o perfezione morale senza esser mai riuscita a rendere felice o moralmente perfetta neanche una persona, benché tutti aspirino ad esserlo. I trattati di morale sono solo riusciti ad indicare quella felicità che, di fatto, è remota dalla realtà del vivere. Eppure Piccolomini tenta di definire cosa sia questa felicità cercando un comune denominatore fra i vari sistemi filosofici. Sembra che viva ancora con l’illusione di poter superare una barriera che secoli di teorie hanno eretto, e che la morale “speculativa” continuava a tenere viva. In altre parole: il grande trattato di Piccolomini rimane profondamente “accademico” e per questo “conserva” la tradizione della filosofia morale legata a pochi temi che si alternano e s’incrociano, e si trova sempre più distante dalla realtà sulla quale vorrebbe incidere. Anche quando nel libro decimo scende da quegli ideali di felicità al mondo della “città” e del governo, i modelli dei “probi viri” rappresentati dal principe rimangono quelli tradizionali di Platone e di Aristotele, come se nel frattempo non ci fosse mai stata l’opera di un Machiavelli. Così alla fine del secolo si coglie un motivo di stanchezza, di tutto un sapere che sa di stantio e sembra giunto ormai ad un’impasse. Per quanto riguarda il nostro honestum, essa sembra una nozione priva di vitalità e non si sa indicare un progetto che possa rilanciarlo.

Tutto questo non avviene in maniera completamente inaspettata o imprevista. L’eclettismo fra aristotelismo e platonismo caratterizza la ricerca filosofica del Cinquecento, anche se il tentativo di comporli è altrettanto frequente quanto quello di opporli. E si capisce che così dovesse essere. Dopo tutto sia i platonici che gli aristotelici, come anche gli stoici e i cristiani, impostavano la ricerca morale mirando al “fine” dell’azione, e questo non poteva essere altro che la felicità. Quel fine, fosse la visione di Dio o la gioia della speculazione, era in tutti i casi fuori o al disopra della sfera pratica, tanto che raggiungerlo significava abbandonare o lasciarsi indietro la vita reale. Si capisce anche come una situazione del genere fosse conflittiva e nello stesso tempo sempre disposta ad essere conciliatoria. La tradizione platonica, suggestiva per la sua forza idealizzatrice, e la tradizione peripatetica con l’insistenza sulla dimensione pratica rappresentavano le due forze maggiori in lizza. Fra queste s’inseriva lo stoicismo, che però identifica il fine dell’azione nella “virtù” stessa o nell’honestum, quindi non identificabile il quale doveva conciliarsi con il bene eterno e pertanto veniva ad assumere una posizione di grado subalterno rispetto alla salvezza eterna; d’altro canto, proprio per il peso che dava alle virtù, lo stoicismo si alleava abbastanza bene con il Cristianesimo. Nel complesso le ricerche sulla morale rimanevano incagliate entro una tradizione così potente che, nonostante le sue sconfitte pratiche, sopravviveva grazie all’accademia e all’infinito numero di trattati sempre ripetitivi e destinati ad un pubblico limitato. Quanti trattati sull’amore platonico non produsse il Cinquecento? Quanti trattati non si scrissero sull’amicizia e sulla temperanza? È difficile stabilire se questa letteratura riuscì a creare amanti più “puri” o amici più “veri”, anche se indubbiamente potremmo trovarne molti riflessi nella letteratura di quei tempi, dalla lirica alla novellistica. Sembra che la disciplina della morale sia rimasta abbastanza omogenea e astratta rispetto alla vita e alla cultura che, invece, avvertiamo in costante movimento e mutamento. Se vogliamo avvicinarci alla “vita morale”, alla cultura del Cinquecento, dobbiamo leggere gli scrittori di storia, i trattatisti di politica, i “moralisti” o gli autori di sermoni, certamente più vicini alla realtà di quanto non lo siano i filosofi morali i quali vedono il comportamento umano dal punto di vista del “sommo bene”. Montaigne apprendeva a conoscere gli uomini più dalla lettura di Plutarco che da quella di Aristotele, e nel nostro Cinquecento Baldesar Castiglione nel Cortegiano spiegava la nozione di “discretio” molto meglio di quanto non facessero i trattati di etica contemporanei. Insomma, i trattati filosofici non ci immettono nella cultura che li produce, o lo fanno solo in modo parziale. Sarà perché sono “filosofici”, e quindi piuttosto astratti, ma soprattutto perché si attengono ai problemi elaborati da una lunga tradizione più che a quelli imposti dalla realtà. Sembra abbastanza corretta l’impressione di una sfasatura fra i modelli elaborati dai filosofi morali e i problemi in cui quella società si dibatteva. Si può dire che i filosofi morali prospettassero soluzioni “ideali” che la realtà di fatto rifiutava o perché inattingibili o perché semplicemente le sentiva ormai come estranee. Detto ancora in altro modo: l’onestade rimaneva sempre un ideale, ma le esigenze reali la decostruivano e da nozione sintetica qual era, combinando l’utile all’onesto, si orientava verso una soluzione analitica con l’onesto da una parte e l’utile dall’altra. È chiaro che in queste condizioni l’onesto fosse costretto a cambiare natura e l’utile dovesse trovare anch’esso una sua autonoma identità. Il tutto avveniva parallelamente al tentativo dei filosofi di tenere in vita l’honestum/utile. È un punto di riferimento che si deve sempre tener presente se si vuol capire la tensione che porta alla metamorfosi o disintegrazione ricordata, e per questo abbiamo ritenuto opportuno aprire il presente capitolo documentando, almeno al livello “ideale”, la sopravvivenza dell’honestum/utile.

Sotto questo rispetto il Cinquecento è diverso dalle epoche precedenti in cui la cultura dell’onestade era creata dalla letteratura che poi la rappresentava. L’onestade, la cultura dell’honestum, nel Medioevo aveva preso la forma della “cortesia” e nel Quattrocento quella di “Umanesimo civile”. In entrambi quei casi la trattatistica morale aveva assunto una veste più retorica che spiccatamente speculativa, e comunque l’attenzione all’aspetto performativo prevaleva su quello speculativo. I trattati sulla cortesia erano illustrazioni generate “dall’interno” dello stesso fenomeno che cercavano di diffondere, di descrivere e di creare. Erano essi stessi quella letteratura che i trattatisti auspicavano e che celebrava un ideale di onestade, fatto dalla cura o ricerca del bello disinteressato. L’amore cortese dei trovatori, la nobiltà del cavaliere innamorato, il Decameron di Boccaccio erano il risultato di questa onestade di cui a loro volta rappresentavano l’ideale e la bellezza. L’Umanesimo civile si riconosceva non tanto nelle traduzioni o nei commenti dell’Ethica aristotelica, bensì nelle opere di Matteo Palmieri e di Leon Battista Alberti, opere che avevano le radici nell’osservazione della società e per questo potevano proporre ad essa ideali e dare delle norme concrete o anche degli ideali raggiungibili. Essi contribuirono grandemente a creare una “onestade civile” che possiamo ricostruire attraverso la lettura di quelle opere. Ma nel Cinquecento, cosa apprendiamo dalla lettura dei trattati di morale? Apprendiamo che si scrive molto di morale, moltissimo dei “fini” dell’azione, abbastanza dell’honestum, ma in quegli scritti non si percepisce che l’Italia sia sotto una dominazione straniera, né che ci sia stata una rivoluzione religiosa epocale, o che non ci siano più i cortigiani di grande levatura intellettuale, o che siano scomparsi i difensori delle “repubbliche” e delle libertà politiche e religiose, che il “bello” non segue più le regole della simmetria e non idealizza la realtà. Tutto questo, invece, lo troveremo in una trattatistica diversa che non addita “i fini” dell’azione ma semmai ne indica i moventi e i risultati, in una trattatistica che lentamente cambia le prospettive della ricerca, e non tenta di guidare l’azione verso un fine ma di spiegare come quel “fine giustifica i mezzi”. E i mezzi, cioè quell’utile dell’“omni utilitate detracta”, tenderanno a prendere il ruolo dominante. In effetti, guardando retrospettivamente, possiamo constatare che al Cinquecento arrivò una nozione “sintetica” dell’onestade formulata dall’Umanesimo civile, e con il tempo essa diventò “analitica” fino al punto da rendere possibile la scissione della diade honestum/utile nei suoi due componenti. Si direbbe che il secolo si aprì con una sorta di diasistema che equilibrava i due elementi; ma progressivamente l’onestade apparve sempre più un ideale irrealizzabile, e il suo sistema delle virtù, convivendo in modo sempre meno pacifico con l’altro sistema dell’utile, diventò sempre più autonomo ed astratto fino ad insterilirsi: ciò che lo teneva in vita era ancora l’immagine e il prestigio dell’ideale che resiste alla morte perché è, appunto, un ideale. E resistette fino alla fine del secolo e oltre, sebbene non avesse più la forza di riscaldare o spronare gli animi verso un bene di cui ormai si poteva favoleggiare. Se l’opera di Piccolomini chiude e archivia decorosamente questo nobile progetto di tenere uniti il bello morale e l’utile particolare, era importante per noi ricordare che per tutto il Cinquecento questa sintesi ideale servì a mantenere presente un traguardo etico al quale, paradossalmente, si correva incontro per allontanarsene.

Giova anche ricordare che quell’equilibrio produsse dei trionfi che il nostro mondo contemporaneo ha completamente dimenticato, tanto remota gli riesce quella mentalità. Pensiamo ad opere come la Civitas veri sive morum di Bartolomeo Del Bene scritta in Francia probabilmente nell’ultimo periodo della residenza dell’autore alla corte di Parigi (morì quasi certamente nel 1588) e pubblicata postuma a Parigi nel 1609 presso l’editore Drouart. In trenta libri scritti in esametri latini si racconta il viaggio dell’autore in compagnia della sua patrona Margherita duchessa di Savoia in una “città del vero” di cui si visitano edifici vari seguendo un percorso sulla falsariga dell’Etica Nicomachea. Il viaggio ha inizio nel palazzo dei sensi (e ad esso probabilmente si ispirò Marino per il suo Adone )5 e si conclude con l’arrivo della coppia in fronte alla Sapienza. L’allegoria del viaggio, che ci porta a rivisitare le virtù e i vizi, non ci dice niente di nuovo sull’argomento, ma capiamo, attraverso le sue splendide illustrazioni e la solennità della lingua e dell’ambiente, quel senso di trionfo di cui parlavamo, trionfo possibile solo dove esista una tradizione di valori ben affermata e quindi sentita come immutabile e degnissima di essere celebrata. Bisogna anche aggiungere che la natura utopistica dell’opera, deducibile dalla pianta della città e delle sue torri e palazzi, contribuisce a renderla emblematica di una civiltà che vede l’uomo al centro di un mondo che gli è dato perché apprenda a reggerlo lasciandosi guidare dalla virtù. E poco conta che sia un’utopia perché tutti gli ideali hanno una parte di utopia, ma proprio per questo sono poli di attrazione e di orientamento che spingono ad un continuo miglioramento dell’umanità. E questo è vero anche dell’onestade in quanto misura ideale del bene terreno.

La pedagogia: Piccolomini.

Poiché i discorsi sommari sono inevitabilmente schematici e gli schemi producono tagli netti anche dove in realtà non sarebbero giustificati o verificabili, è utile correggere questa impressione ricordando che non mancarono i trattati in cui si avvertiva il pericolo dell’astrattezza e dove entrava non poco della vita che l’accademismo tende sempre a lasciare fuori delle porte. Il loro studio ci servirà a capire che il mutamento fu graduale, diversamente da come avvenne nel mondo protestante: in Italia la tradizione era non solo radicata ma serviva anche a conservare i valori che il mondo straniero, con le sue invasioni e con le sue dottrine, minacciava di cancellare.

Un settore in cui si avverte questo mutamento graduale è indubbiamente quello pedagogico, perché la pedagogia, più della filosofia, è impegnata con il mondo pratico dal momento che tende a formare persone indirizzandole verso un ideale anziché attenersi esclusivamente a delinearlo. Tuttavia anche in questo campo la tradizione rallenta i cambi, per cui, per renderli tangibili, evitiamo di analizzare tutta una serie di testi che si ripetono specialmente se sono ravvicinati nel tempo. Ci soffermiamo invece su due testi non molto distanti nel tempo ma di orientamento leggermente diverso, rispettivamente di Alessandro Piccolomini e di Sperone Speroni. Sono entrambi autori di notevole statura, dunque due sondaggi non privi di valore ed entrambi consentono di apprezzare il mutamento di temperie culturale rispetto alla tradizione quattrocentesca o tardo umanistica.

Il primo testo che prendiamo in esame è di Alessandro Piccolomini (1508-1578), il quale fra le altre opere scrisse un ampio trattato di morale Della Istitutione di tutta la vita dell’huomo nato nobile e in città libera libri X, pubblicato nel 1542 ma poi rivisto e pubblicato nel 1560 con il titolo semplificato Della institutione morale libri XII, e in questa forma ristampato varie volte. Noi prendiamo in considerazione la prima versione per dare rilievo al momento culturale in cui apparve. Siamo quasi a metà del secolo e tantissime cose sono cambiate nell’assetto politico e civile italiano da quando l’Italia viene invasa dal re francese Carlo VIII nel 1494, da quando Machiavelli mette in circolazione il Principe, da quando Roma è stata saccheggiata. Si direbbe che abbiamo scelto un momento non tanto rappresentativo del mutamento che cerchiamo di cogliere, perché in realtà il mutamento non è solo in corso, ma è già avvenuto con esiti ormai macroscopici. Tuttavia i mutamenti culturali, specialmente in tante discipline, sono piuttosto lenti e lo sono in misura inversamente proporzionale alla distanza che mantengono rispetto alla realtà e in misura direttamente proporzionale con la tradizione in cui s’inseriscono: se questa è molto forte, il mutamento sarà lento per il carico di vischiosità che le tradizioni forti comportano. Quest’ultimo è il caso della pedagogia, motivata spesso da propositi “innovativi” per quanto riguarda il metodo d’insegnamento, però vincolata anche ad impegni conservativi poiché normalmente tende a “restaurare” forme di sapere che si ritengono in crisi. La pedagogia era stata una disciplina capitale nella tradizione umanistica perché ad essa si delegava il compito della formazione dei futuri cittadini, esperti di storia, di legge, di arti sermocinali, insomma di tutto quel sapere indispensabile per il bene della città e dei cittadini.

L’anno in cui apparve l’opera di Piccolomini coincide quasi con quello dell’apertura del Concilio di Trento, e lo notiamo non perché vi sia alcun rapporto diretto fra i due eventi, ma per dare un’idea della temperie culturale di quei giorni. L’autore era membro di un’illustre famiglia senese, insegnò filosofia morale per vari anni a Padova, visse quindi fra Siena e Roma, fu prelato di alto rango, fu autore di varie opere scientifiche nonché di ben riusciti lavori teatrali e di trattati sull’educazione femminile: fu, insomma, un uomo impegnato in vari aspetti della cultura e non fu il tipico “accademico”. Forse fu questo il movente per cui decise di scrivere la sua Institutione in volgare, fatto veramente innovativo nel genere di tali opere, benché la novità dell’opera non fosse radicale come questa scelta potrebbe far presumere. Fu decisamente innovativa nel senso che sottrasse il discorso sulla formazione dei giovani alla nozione del “sommo bene”. Anzi l’opera si apre prendendo posizione proprio contro le idee sul sommo bene proposte dai platonici (essenzialmente confinate al mondo metafisico) e contro la proposta aristotelica (la contemplazione è di pochi ed estranea alla vita attiva; inoltre l’onore non può essere un sommo bene, visto che si cerca per un fine ulteriore). Tuttavia non si può prescindere da un traguardo verso il quale si deve dirigere l’educazione o “istituzione” dell’uomo nato nobile. E proprio in limine, in un capitolo intitolato In che consiste la felicità de l’homo et il sommo bene (I, 2), Piccolomini indica quel traguardo: «la felicità humana non sia altro che l’operatione secondo la virtù in vita perfetta» (p. 15).6 E poco prima ricorda che la virtù dell’uomo è conforme alla sua propria natura, e quindi deve seguire la ragione; e poiché l’uomo non vive per se stesso, è importante che questa sua virtù sia per il bene dei suoi simili: «essendo che non per se solo nasce l’homo, ma acciò che conversando giovi a coloro, co i quali la natura ’l congiunge» (p. 14). Non è una nozione originale e Piccolomini è piuttosto sbrigativo nel descrivere la virtù e il suo rapporto con la felicità. È ben consapevole delle possibilità che la tradizione filosofica gli offre, possibilità che sono sostanzialmente due, come si deduce dal capitolo 7: De le due felicità Speculativa, e Civile, over pratica, e de la differenza tra Platone e Aristotele intorno a quelle, e non dimentica che esiste anche una terza possibilità, ossia quella cristiana, pertanto preferisce essere un eclettico: «quantunque principalmente io segua Aristotele, e in alcune cose Platone, secondo che più mi aggrada, nondimeno in cosa alcuna non gli seguirò, che i meriti d’un buon christiano, punto macchiar possino già mai» (p. 18v). Una volta indicato il traguardo, Piccolomini procede ad illustrare le vie per raggiungerlo. È chiaro che se si occupa del sommo bene lo fa perché sa di non poter parlare di etica senza considerare il fine dell’agire umano; tuttavia il resto del trattato non insiste sullo studio della virtù dal punto di vista teorico, mentre insiste sulla formazione che prepara alla virtù e quindi sulle sue applicazioni nel mondo della prassi. Nel primo libro analizza la psicologia, le potenze dell’anima, le varie forme di virtù, e il tutto sulla linea aristotelica. Piccolomini non dimentica che anche i cristiani parlano di un “sommo bene” che non è né platonico né aristotelico. È chiaro come a Piccolomini interessi il tipo di “etica civile”, e non presti attenzione all’etica speculativa. Infatti, nel secondo libro avvia il discorso sulla pedagogia ponendosi come guida di un ragazzo (Alessandro Colombini) a partire addirittura dal terzo anno d’età. Nel terzo libro si danno consigli al “precettore” che educa i ragazzi fino ai diciotto anni, e si passano in rassegna le discipline del trivio e del quadrivio. Nel quarto libro si studiano le virtù a cominciare dalla Prudentia che, in quanto virtù “intellettuale”, viene considerata come facente parte per se stessa, ma come le altre consiste nell’agire attenendosi al “giusto mezzo” secondo l’insegnamento aristotelico. Il libro quinto apre la trattazione delle singole virtù, a partire dalla “fortezza” vista, come voleva Aristotele, come la via di mezzo fra i suoi due eccessi viziosi, che sono la temerarietà e la codardia; passa, quindi, alla temperanza alla quale fa seguito la liberalità, e questo già ci dice, anzi, ci conferma che lo schema delle virtù non è quello ciceroniano e cristiano delle quattro virtù cardinali bensì quello aristotelico. Segue la magnificenza che porta allo studio dell’onore, considerato come il premio della magnanimità, premio che il magnanimo accetta come dovuto non in quanto “vanitoso” ma in quanto rispettoso dei valori che quegli onori rappresentano, e accettandoli li esalta e li moltiplica. In questo modo egli evita gli eccessi viziosi della superbia e dell’umiltà. Seguono la mansuetudine e quindi l’affabilità, virtù che favoriscono la “socialità” e la conversazione, o diremmo semplicemente la civilitas e l’urbanitas, virtù indispensabili non solo per i cortigiani ma anche per tutti quelli che amano la “creanza”, argomento sul quale negli anni successivi fiorirà una ricca letteratura. È importante rispettare la verità nel riferire le cose, senza mai esagerarne o diminuirne la portata. Bisogna evitare la dissimulazione, l’ironia e la vanagloria (lib. V, cap. 10, De la verità, e suoi estremi, c. 118v; qui echeggia l’eironeia o dissimulatio e la alodzeneia o jactantia aristoteliche, entrambe forme della menzogna, Ethica Nicomachea, IV, 13). Interessante vedere che la “dissimulazione” viene condannata in quanto presuppone un calcolo, un desiderio di beneficio e di guadagno o anche di procurarsi onore, come quelli che simulano di dominare un sapere che in realtà non possiedono (c. 118v). Segue l’urbanità (lib. V, cap. 11), virtù che non ha riscontri nelle classificazioni tradizionali ma che corrisponde grosso modo al decus e consiste nel saper fare uso appropriato dei “moti di spirito”, nel dire facezie, nell’evitare il turpiloquio, nel vestirsi decorosamente, nel saper tenere il giusto mezzo tra la mancanza di umore e la scurrilità, insomma una virtù “civile” nel senso che tale termine viene acquistando in una società che sente il bisogno di galatei e di un’etichetta orientata verso la “creanza”. Seguono la verecondia, quindi l’indignazione contrapposta all’invidia, e la misericordia contrapposta alla “impietà” (lib. V, cap. 13). Sono virtù che non sono né aristoteliche né accademico-ciceroniane – forse sarebbe più corretto parlare di “emozioni” –, come del resto l’autore aveva premesso dicendoci che in alcuni casi avrebbe proceduto per proprio conto allontanandosi dai classici dell’etica. E non è un caso: il progetto di occuparsi di etica “pratica” lo porta ad analizzare i comportamenti che la società del suo tempo sembra esigere. Il sesto libro è dedicato ai vizi, a cominciare dall’iracondia; di ogni vizio si ricercano i modi per correggerlo. I vizi studiati sono il timore (che contiene considerazioni sulla tirannia), ancora la verecondia come manifestazione di timore, l’ingratitudine, la spietatezza, l’indignazione, l’invidia, e seguono considerazioni sulle varie età dell’uomo per capire meglio come virtù e vizi siano legati al numero degli anni. Chiudono il sesto libro varie considerazioni sulla nobiltà, sui costumi dei ricchi, dei potenti, sulle «conversazioni e intrattenimenti con Donne Nobili» (cap. 17). Nel libro settimo si studiano le virtù “politiche”, ossia la giustizia, e quindi le virtù “intellettuali” che in termini platonici sono l’intelligenza, la disposizione all’arte, la prudenza, e finisce con un capitolo ispirato ad Aristotele sulla “virtù eroica”. Il libro ottavo è dedicato all’amicizia, il nono all’amore, il decimo al matrimonio e ai doveri del padre di famiglia.

È una conclusione decisamente “pratica” e quindi del tutto congrua con il senso dell’intero trattato. Nel quale, come si sarà osservato, manca un’attenzione alle virtù “noetiche” perché queste portano a quel sommo bene che l’autore non intende trattare. Inoltre son da notare come temi insoliti l’attenzione alla poesia e un tentativo di darne una definizione estetica, nonché l’attenzione ad alcune “emozioni” o passioni su cui torneremo – ma per il momento notiamo che queste sono considerate come vizi –, e alla virtù eroica, anticipando così un argomento che verrà trattato con grande frequenza e sviluppato nei decenni successivi. Notevole è anche la condanna della “dissimulazione”, non perché fosse una condanna nuova rispetto alla tradizione precedente, ma perché quel “vizio” diventerà presto una virtù nella tradizione morale che si instaurerà entro qualche decennio. Sorprende non poco vedere che, nonostante l’enfasi posta sull’identità di “virtù e felicità”, un concetto che si direbbe di matrice stoica, non si parli dell’honestum. Se ne parla solo nel libro ottavo dedicato per intero all’amicizia, e specificamente nel capitolo III, Della diffinitione de l’Amicitia e de le tre spetie di quella, dove si dice che

l’Amicitia honesta si può veramente chiamar amicitia; come quella che fa che color che amano, non per commodo di se lo fanno, ma principalmente per causa di esso amato, amando ciaschedun la virtù l’un de l’altro. Onde durabilissima ne diviene, come quella, che havendo per fondamento la virtù, non agevolmente è mutabile, come nei precedenti libri v’ho detto (c. 187r).

In questo tipo d’amicizia, per altro quanto mai tradizionale, affiora l’idea del disinteresse che caratterizza l’honestum. Tutto il libro VIII è basato sull’amicizia, ed è la sola virtù che veramente celebri il disinteresse, il bello della virtù in sé, l’onesto che si sublima in dedizione pura senza ombre di egoismo. L’amicizia è la virtù che rappresenta al meglio la dimensione privata della virtù, e proprio per questo libera l’anima dalle scorie dell’utile. Non è necessario aggiungere che è anche una virtù avente una tradizione antichissima, e che ha un’origine “spontanea”, naturale: per questo, se non è possibile educare i giovani all’amicizia, bisogna insegnare loro ad apprezzarla e a coltivarla, perché l’amicizia fa capire la bellezza dell’onestade, la ricerca disinteressata del bello e del bene.

Il libro di Piccolomini si colloca a mezza via tra una guida pedagogica o anche un libro di formazione sociale (si ricordi che si chiude con una sezione sul matrimonio!) e un libro di maniere, e se non riesce ad essere completamente né l’uno né l’altro, arriva però a trasmettere un senso di diffidenza verso i discorsi che portano lontano dal mondo reale. L’apertura agli aspetti pratici o sociali è un passo, per quanto timido possa essere, verso la ricerca dell’utile, lasciando in penombra il richiamo dell’onesto o del bello in sé. Quando, ad esempio, tratta le arti del trivio e del quadrivio, Piccolomini non si discosta da quanto insegnavano gli umanisti, e anche se scrive in volgare, la maggior parte degli esempi che adduce è di ambiente classico. Non viene mai meno la convinzione che gli studi umanistici abbiano un primato pedagogico indiscusso, anche per uno “scienziato” com’era Piccolomini. Eppure non si avverte mai l’idea che il fine ultimo dello studio sia la conquista di un bene disinteressato, perché lo studio prepara alla vita non solo politica ma sociale in generale.

La dimensione del “disinteresse” aveva animato fino ad allora la missione del letterato, e attorno all’idea della gratuità dello studio onesto si era creata la mitologia del letterato che sfida la povertà e affronta ogni sacrificio pur di avere la ricchezza del sapere. La mitologia del letterato che accetta i disagi della sua professione anziché cedere alle lusinghe della venalità costituiva un patrimonio morale di cui si gloriava la “classe” dei letterati e con essa si ripagava delle difficoltà quotidiane del vivere da cortigiano o da accademico o da pedagogo, forte della certezza di detenere i tesori della storia e della saggezza. Esiste tutta una letteratura sui malanni e sulle disgrazie dei letterati, una letteratura che risale addirittura a Giovanni di Salisbury nel dodicesimo secolo e che arriva fino al Settecento con Bernardino Ramazzini (De morbis artificum, 1700), passando attraverso le opere di umanisti quali Enea Pio Silvio Piccolomini e Celio Calcagnini. Era una mitologia che teneva fertile il terreno in cui le piante dell’onesto/utile rimanevano sempre verdi, per cui un mutamento in quel tipo di studi e di quella mitologia poteva avere conseguenze anche contro l’idea di un honestum puro e di un utile sempre riprovato per la sua potenziale venalità.

Sperone Speroni.

Sperone Speroni – uno dei due autori sopra ricordati – promuove questo mutamento. È utile ricordare che Speroni nacque e si formò a Padova, ossia nella roccaforte più fedele all’aristotelismo, e perfezionò i suoi studi alla scuola bolognese di Pietro Pomponazzi, il cui pensiero contribuì non poco a frenare l’ondata del neoplatonismo dei ficiniani. È anche utile ricordare che Sperone Speroni fu tra i fondatori dell’Accademia degli Infiammati, inaugurata a Padova nel 1540, il cui programma contemplava la diffusione del sapere utilizzando il canale del volgare, conquistandosi in questo modo uno spazio intermedio fra l’università e la corte, una collocazione che diede al fenomeno delle accademie un ruolo fondamentale nella cultura italiana del Cinquecento.7 Potrebbe avere un valore più che aneddotico ricordare che il Tomitano descrive Speroni in grado di offrire al papa durante una cena un “onesto trattenimento” con una dotta disquisizione scientifica. In alcuni trattati e dialoghi risalenti tutti a quel decennio Speroni rivaluta la vita attiva contro la vita contemplativa, rivede la nozione di onesto e utile, e riconsidera il valore dello studio dei classici: tre argomenti di capitale importanza per il nostro studio. Nel dialogo Della vita attiva e contemplativa (1542) riprende il tema su cui sembrava aver detto l’ultima parola Cristoforo Landino sulla scia ficiniana, esaltando la vita contemplativa e riponendo in essa la felicità terrena. Nel dialogo speroniano tale tesi è posta in discussione e contestata. Non si nega che la vita contemplativa sia nobile e degna di rispetto, ma la si considera parziale e non rappresentativa della natura umana che è fatta anche di materia e pertanto ha necessità pratiche: «però a vivere umanamente siccome uomini noi siamo, più tosto dovemo operare civilmente, che contemplare né speculare».8 La vita esclusivamente speculativa è un segno di pigrizia più che d’impegno intellettuale, e non si può speculare, cioè conoscere le cause di tutte le cose che mangiamo o tocchiamo o vediamo quotidianamente. Anche le virtù, che riteniamo un habitus e quindi frutto dell’opera dell’uomo, non sono da vedere come dono divino e frutto della nostra razionalità, altrimenti le avremmo in forma naturale fin dalla nascita. Speroni non nega i pregi della contemplazione, ma non se ne mostra un propugnatore fino al punto da dimenticare che l’uomo deve vivere in società e non può fare a meno di adempiere a doveri pratici.

Speroni mostra tendenze scettiche non però così forti da arrivare a forme di nichilismo, comunque sufficienti a ridimensionare alcuni principi ritenuti irremovibili dalla cultura del tempo. Le tesi sulla vita contemplativa appena viste si allargano anche al campo della pedagogia, campo sorvegliatissimo fin dai primi passi dell’Umanesimo, perché istruzione, formazione e conoscenza della tradizione sono considerate tappe essenziali del cursus studiorum. Ora a questo cursus Speroni dedica due “discorsi” Del modo di studiare in cui adotta la finzione di dover consigliare ad un giovane i modi e i fini da perseguire per dare un senso ai propri studi. Esordisce ricordando che lo scopo ultimo degli studi è la ricerca della felicità, che consiste nella combinazione di sapienza ed eloquenza. «Sono dunque cotali due facultati due quasi proemii o previe disposizioni alla felicità de’ mortali; la quale propriamente consiste nell’unione dell’eloquenzia a quella parte di sapienzia, cui attiva appelliamo: ove come a suo destinato berzaglio dovete dirizzar l’arco dell’intelletto».9 Già questa definizione fa capire che Speroni non intende la “felicità” nel senso del “fine della vita” né tanto meno nel senso platonico-ficiniano e cristiano di beatitudine eterna. Egli l’intende come la “perfezione” nel campo degli studi. E per questo egli chiarisce che esiste una “sapienza attiva” e una sapienza speculativa. Tale divisione fa cadere il mito che lo studio delle lingue sia indispensabile. In effetti, la geometria e la logica (che fanno parte della “sapienza attiva”) si possono apprendere in qualsiasi lingua, e Speroni esalta qui l’utilità dell’italiano, lingua nella quale si può leggere Euclide senza alcuna perdita perché il quadrato e il cerchio rimangono un quadrato e un cerchio in qualsiasi lingua (p. 492). Il mito della lingua tiene in vita i classici anche quando se ne potrebbe fare a meno: «Ma reggere e governare sapientemente alcuna repubblica niuno autore Greco o Latino vi può meglio con carta e con inchiostro insegnare, che siano per fare i vostri proprii gentili; li quali più porranno in voi con alcuni esempii di casa vostra, che non saranno quanti sillogismi dimostrativi ne scrisse mai Aristotele nella sua divina politica» (p. 500). Quanto poi alla sapienza “speculativa”, tanto privilegiata dalla cultura umanistica, Speroni trova che sia tempo perso inseguire «presuntuosi quesiti» sulla fortuna, sull’eternità, sul tempo perché sono sempre studi inconcludenti tanto che, chi ripone in queste “speculazioni” il segreto della felicità, si condanna ad una ricerca perpetua senza fine. Molto più costruttiva è la sapienza di coloro che si occupano del mondo fisico, dell’universo e delle sue parti, «le quai cose conosciute da voi umanamente vi gioveranno» (p. 496). Occupandosi dello studio delle virtù, Speroni cita il De officiis e le Tusculanae ciceroniani «nelle quali con stile assai diverso da que’ due primi [i.e. Platone e Aristotele], va tuttavia ombreggiando tutto ciò, che perfettamente nell’altrui carte troverete ritratto» (p. 500). Nel secondo “discorso” si occupa dell’eloquenza. E qui prevale nuovamente il senso pratico dell’autore. Per lui l’oratore deve prima di tutto persuadere, e a questo fine è un errore “imitare” gli oratori antichi. Da questi bisogna riprendere non la lingua ma la nozione che il discorso deve essere pensato con gli strumenti che persuadono, ossia con la lingua volgare e con la consapevolezza della cultura dell’uditorio. L’orazione, in altre parole, non deve apparire come un pezzo degno di un Demostene o di un Cicerone, ma deve essere efficace come lo furono quelle degli oratori antichi, quindi devono essere naturali e attuali. Ancora una volta, dunque, Speroni punta alla funzione “utilitaria” del sapere.

Lo scetticismo rispunta nel discorso che più da vicino tocca il nostro argomento, il Discorso dell’onore, utile, e fine dell’uomo. Qui esordisce osservando che ciò che agli uomini può sembrare saggezza è pazzia agli occhi di Dio (è ovvio il ricordo paolino), e ciò che per gli uomini è onorevole, per il Creatore è invece vergognoso. Tale premessa mette in dubbio l’assolutezza dei valori che consideriamo positivi. Il discorso sviluppa questa linea di pensiero.

In questo il vero onor dell’uomo è operare in quanto uomo, cioè in virtù dell’intelletto, intendendo ed operando, essendo religioso, e conoscendo il decoro suo e d’ogni cosa. E tale è l’uomo, benché niuno il conosca, e stiasi da tutti separato: e questo è l’util suo, perché in tal modo di considerare l’uomo non è diverso l’utile dall’onesto.10

Quest’uomo, però, è un’entità astratta che non vive secondo la sua natura la quale, avulsa dal contesto sociale, è “imperfetta”, mentre si realizza pienamente solo in una società che è la casa, il villaggio e infine la città, che è la più perfetta delle imperfezioni della natura. In questa società cittadina o “civile” l’uomo vive seguendone le leggi e i valori, e in tal modo raggiunge quel culmine di perfezione che gli è consentito. Ma quei valori sono della civitas e non sono assoluti: si pensi alle leggi o alla giustizia o alla religione per vedere che si sta parlando di valori relativi, ché le leggi cambiano da città a città e le religioni possono cambiare da nazione a nazione. L’uomo che vuole vivere seguendo quella perfezione che ritiene sia quella della sua ragione e che lo porta a mettersi in contrasto con le leggi imperanti, si prepari ad essere martirizzato, e magari i posteri gli renderanno l’onore che si merita se un rovescio di valori lo farà apparire degno di esso. Un ragionamento del genere mette in crisi i principi tradizionali e mette in luce il fatto che quando si parla di valori si parla sempre di valori relativi. È una conclusione relativistica che rompe con quanto generalmente insegna la tradizione umanistica (che però riconosce la relatività storica delle leggi) la quale ricavava le regole del vivere proprio dalla tradizione. Lo scetticismo di Speroni è certamente temperato rispetto a quello che qualche decennio più tardi sarà presente in Montaigne o in pensatori come Hume, ma si avvicina alquanto allo scetticismo dei Cornelio Agrippa di Nettesheim la cui De vanitate scientiarum del 1523 si diffuse presto in Italia, e fu letta da autori come Ortensio Lando e da tutta una frangia di autori piuttosto insofferenti del sapere tradizionale. L’atteggiamento di Speroni nei riguardi della tradizione non arriva al ripudio, ma è aperto a sentire qualche innovatore, a dissentire e soprattutto a sottrarsi alla malia del “sapere per il sapere” e di ogni ricerca che abbia in sé il proprio fine.

I Dialogi di Speroni furono pubblicati solo nel 1542 – un anno prima che apparisse l’Institutione di Alessandro Piccolomini – ma furono composti nel decennio del 1530. Evidentemente il dissenso verso un certo modo di sapere e verso le fonti del sapere covava da un pezzo. E non erano casi isolati. L’aria d’insofferenza, se non ancora di rigetto dichiarato verso la tradizione classica, doveva spirare anni prima se ricordiamo che la figura del “pedante” come caricatura dell’insegnante dei classici era già sulle scene negli anni ’30 (Il Marescalco di Pietro Aretino è del 1533 e Il Pedante di Francesco Belo è del 1529 e forse prima), e la caricatura di solito attacca gli innovatori o i passatisti, e in questo caso erano i secondi ad esserne l’oggetto con il loro culto un po’ ammuffito del passato. Qualche decennio più tardi l’Europa intera denunciava le pedantisme, come vediamo in Montaigne (Essais, I. 25 e 26) o in Quevedo (Buscón) o in Shakespeare (Love’s labor lost). Il nostro indugio sulla pedagogia non intendeva indicare il punto in cui avrebbe inizio la “crisi dell’onestade”, ma rilevare soltanto come una delle vie che trasmettevano l’onestade dal mondo antico presentava degli ostacoli che con il tempo sarebbero diventati gravi fino al punto da ostruirne il cammino. Saremmo in grado di documentare meglio queste difficoltà di comunicazione se procedessimo a ricostruire almeno sommariamente la storia della pedagogia nel Cinquecento. Ma già prevediamo che ne ricaveremmo ben poco, perché l’istruzione, a partire dagli anni ’40, fu curata in buona parte dagli ordini religiosi – i barnabiti, i teatini, i somaschi e poi soprattutto i gesuiti – i quali restaurarono in primo piano il “fine” o “sommo bene” come orientamento dell’educazione, e questo mantenne in vita “artificialmente” l’onesto e l’utile. La storia dell’onestade ci offre migliori piste di ricerca, quali ad esempio i concetti di “nobiltà” e di “gentiluomo”.

Il gentiluomo.

Per avere una percezione meno vaga del tenore culturale attorno al quarto decennio del secolo vediamo come si profilano alcuni modelli di perfezione morale, ricordando che già le pagine di Piccolomini e di Speroni dicono più o meno esplicitamente che tale perfezione non è da cercare nei chiostri, negli eremi né in altre forme di vita solitaria. Fra questi modelli spicca proprio in quel decennio il tipo sociale del “gentiluomo”, una persona socialmente ben visibile e consapevole del proprio valore e dignità, conscio del suo dovere di vivere all’altezza del proprio stato che gli viene confermato dal riconoscimento pubblico, ossia dall’onore.

Per rispettare la cronologia dovremmo cominciare da Il gentilhuomo di Fausto da Longiano, uno dei primissimi trattati sul tema. Fausto da Longiano lo pubblicò, ma in forma ancora incompiuta, nel 1544. In effetti, contiene solo le prime due parti mentre le altre due promesse, la terza sul gentiluomo e la quarta sulla gentildonna, non furono mai pubblicate. Il che, forse, ci ha risparmiato una gran fatica, poiché le prime due parti si dilungano sul concetto di perfezione stabilendo una minuziosa gerarchia fra gli elementi naturali (ad esempio gli alberi sono più vicini alla perfezione delle pietre), e poi sulla superiorità dell’uomo rispetto a tutti gli altri animali, e quindi quali delle virtù meritino il posto supremo: date simili premesse, forse non avremmo imparato molto sul “gentiluomo” eccetto che per esserlo bisogna avere un grado di nobiltà. Tuttavia è importante accennare almeno all’opera di Fausto da Longiano perché un tema rimasto a mezz’aria non perde interesse, in quanto dimostra almeno di essere di una qualche attualità. E, di fatto, lo era se pensiamo che il “gentiluomo” diventa nel Cinquecento la figura sociale in cui si rapprendono, si concretizzano, le ricerche sulla “nobiltà”. Queste vantano secoli di storia, e come tutti i concetti che perdurano nella storia, subiscono profonde modificazioni nel corso del tempo. Nel Cinquecento tale storia conosce una svolta molto significativa producendo la figura del “gentiluomo” che incarna, appunto, l’idea di nobiltà. È una figura che non ha una storia omogenea perché strada facendo perde il significato di «appartenente alla classe nobiliare o aristocratica» e lo allarga fino ad incorporare ceti borghesi, precipuamente quello mercantesco, e individui di una certa affluenza e importanza sociale. Fino ai primi del Cinquecento i “gentilhuomi” erano quelli disprezzati da Machiavelli in una pagina spesso ricordata dei suoi Discorsi,11 in cui il termine indicava grosso modo il “signorotto di tipo feudale” che viveva di rendita nel suo castello e si opponeva ad ogni innovazione; era una figura molto presente nell’Italia meridionale e in altre parti, dove le strutture feudali rimanevano ancora forti. Ma nei primi decenni del Cinquecento il titolo si estende alle persone che ricoprono cariche pubbliche e hanno “uffici” di natura “intellettuale”, come notai, accademici, e anche grandi commercianti.

Per procedere con maggior chiarezza, fissiamo alcuni punti di riferimento. La discussione sulla nobiltà, come dicevamo, ha le sue radici nel Medioevo e ne abbiamo visto gli sviluppi nel mondo dell’Umanesimo. Fin dalle origini si pone il problema se la nobiltà sia un fatto di sangue e/o di ricchezza oppure frutto della virtù. E siccome, tanto in termini aristotelici quanto ciceroniani, la virtù si esercita più agevolmente quando si dispone di mezzi (salute e ricchezza), la discussione sulla nobiltà non poteva prescindere da quella sulla ricchezza: solo gli stoici, nella loro idea della rigida onestade, potevano pensare che la virtù da sola costituisse la vera nobiltà. È chiaro che dietro le discussioni esistono interessi di classi che rimangono attaccate ai privilegi sociali e legali garantiti dalla “nobiltà”, e accanto ad essi si pongono altri interessi di classi emergenti che aspirano ad avere privilegi analoghi. Si ricordi, solo per fare un esempio, come l’ascesa di un Coluccio Salutati, grande “professionista” dell’amministrazione pubblica e di una classe di burocrati indispensabili, contribuì a modificare il discorso sulla nobiltà rispetto al modello vigente dell’aristocrazia dei casati fondati sul valore militare. A primi del Cinquecento il fenomeno che maggiormente incide su queste discussioni è la dominazione straniera che importa in Italia idee nobiliari diverse da quelle italiane, senza dire che in Italia esiste una grande differenziazione culturale, tanto che a Venezia la nobiltà ha tradizioni e origini diverse da quelle, poniamo, di Napoli o di Firenze. Inoltre, in modo complementare prende piede la tendenza di passare dai decreta ai praecepta, se così possiamo dire, nel senso che si nota una tendenza a passare dalle discussioni teoriche, spesso sotto forma di dialogo, alle proposte di modelli (ad esempio il “gentilhuomo”), ed è una tendenza che livella le differenze indicate e crea un modello unico di questa “nobiltà”.

Ancora qualche dato per inquadrare meglio il nostro tema. Un fattore di grande rilievo nel promuovere la discussione sulla nobiltà fu la cosiddetta “rivoluzione dei prezzi” che precipitò la crisi della classe nobiliare che ricavava le sue “rendite fisse” dai grandi latifondi; e nello stesso tempo diede preminenza alle classi dedite al commercio e alle finanze. L’ascesa nella scala sociale andava riconosciuta con un titolo, e quello di “gentilhuomo” assolveva benissimo questo bisogno perché non era un titolo di tipo araldico o aristocratico e tuttavia comportava un riconoscimento onorifico ed esigeva una partecipazione attiva nella direzione della vita politica delle città e degli stati.

Si formavano così tre classi sociali: dei nobili per tradizione familiare, dei cittadini facoltosi e della plebe sempre pronta a riottare. Le tensioni erano ovunque forti, e nacque perfino la tendenza a vedere alle origini dell’alta nobiltà antenati che si erano impossessati di terre e di titoli con atti criminali, per cui il vanto delle “origini” veniva messo in discredito. Un altro fattore fu l’influenza spagnola che, oltre a modificare il corpo politico dirigente chiamando a reggere i governi locali molti “gentiluomini” di leva recente, immise nella cultura italiana quel concetto di “onore” che nel corso del tempo diventò una vera ossessione sociale e promosse a sua volta una vasta letteratura che definiva quel concetto e che discusse a lungo sul modo di difenderlo, cioè il duello. La ricerca dell’onore – mai definito in modo inoppugnabile, come del resto accadeva per la nozione di nobiltà – irrigidiva le tensioni nate dalla convivenza delle tre classi sociali, tutte alla ricerca di un’identità, specialmente le due più alte. Inoltre la ricerca dell’onore mise in discussione quelle che si ritenevano le fonti massime dell’onore civile, vale a dire le armi e le lettere, e il paragone fra queste diventò un tema dibattuto intensamente nonostante il fatto, o forse proprio per questo, che le vie dell’ascesa sociale, le armi e le lettere, fossero sempre meno percorribili. Ricordiamo alcuni dei titoli pubblicati fra il ’40 e il ’70, i decenni che intercorrono fra la pubblicazione del Gentilhuomo di Fausto da Longiano e il Gentilhuomo di Girolamo Muzio. In quei decenni cruciali apparvero i Discorsi ne’ quali si ragiona di quanto far debbono i gentiluomini ne’ servigi de’ lor signori per acquistar la gratia loro (1543) di Pelegro de Grimaldi Robbio; i Ricordi del milanese fra’ Sabba da Castiglione (1546 e 1549); Il Nennio nel quale si ragiona di nobiltà del barese Giambattista Nenno (1542); Il Nobile del friulano Giuseppe Betussi (1548); Il gentiluomo del lucchese Pompeo Rocchi (1568, recentemente edito da Renzo Sabattini [Luca, Pacini Fazzi, 1995]; Le attioni morali… et s’ha piena congnitione del proceder del Gentilhuomo, del Cavaliere et del Principe di Giulio Landi (1564). Tutti questi testi, alquanto diversi fra loro per il taglio e per lo stile, si rassomigliano molto non solo per la materia che trattano ma per le conclusioni alle quali pervengono. Sono conclusioni sempre ambigue sia per la natura del dialogo fra interlocutori che presentano tesi diverse e perfino opposte, sia per la natura della materia. Tutti presentano il tema della nobiltà e la figura del gentiluomo prendendo in considerazione la virtù e la ricchezza, e non riescono mai a decidere a vantaggio della prima sulla seconda. Lo dimostra egregiamente il trattato di Girolamo Muzio che in qualche modo assomma le tesi dei trattati precedenti, ragione per cui abbiamo deciso di prenderlo in considerazione.

Il Gentilhuomo di Muzio è diviso in tre parti, e l’autore nell’epistola dedicatoria a Luigi Mocenigo afferma che non intende scrivere un trattato filosofico di morale ricercando “la perfettione” della virtù, ma organizzare delle considerazioni sullo “honesto vivere”.

Tuttavia il primo libro – che si apre con la questione se le ricchezze costituiscano un titolo di nobiltà – concede non poco alle nozioni “filosofiche” di virtù e di nobiltà. Ricorda opportunamente il pensiero degli stoici: «Et questa è in somma sentenza fermissima de gli Stoici Philosophi gravissimi, che la nobiltà sia uno splendore, il quale dalla virtù procede» (p. 14);12 e quello socratico: «Socrate, il quale diceva che le ricchezze et la nobiltà del sangue non hanno in se veruna honestà» (p. 20), e a queste auctoritates s’accompagna il solito corredo di exempla ricavati dal mondo antico. Però l’autore non dimentica che il suo discorso deve avere una base storica, un contatto con il mondo reale, e per questo ci ricorda che esiste una nobiltà “universale” e una nobiltà “civile”, e non dimentica che «civilmente parlando, diremo, che nelle città sono per ordinario i Gentilhuomini, i cittadini e la plebe» (p. 23), per cui il discorso sulle virtù riguarda sia la nobiltà naturale che quella civile.

Passando al secondo libro, la dimensione “astratta” o teorica del discorso sulle virtù cede il posto ad un discorso che non esiteremmo a chiamare “sociale”:

Due sono le maniere di nobiltà, l’una naturale, et l’altra civile. La prima è quella che ci viene dalla perfettione (la qual detto habbiamo) della natura, che è la virtù. Et la civile, quella delle famiglie chiamate nobili, per la quale altri conseguisce i maestrati, et gli honori, che ordinariamente da’ Prencipi, et dalle città si distribuiscono. Quella della virtù è universale, che il virtuoso è nobile nel cospetto di tutti quegli huomini che in tutte le parti hanno intelletto di huomini. Et la civile è particolare: che quale è gentiluomo Vinitiano, quale Napoletano, quale Fiorentino, et quale di altra città (p. 112) […]. I Prencipi veramente, et le Republiche co’ loro privilegi rendono testimonianza alla nobiltà naturale, et donano la civile; di questa facendo nobile il privilegiato, et quelli che da lui discendono. […] Adunque nobili saranno tutti quelli, che nelle loro città parteciperanno de gli honorevoli maestrati, che in ogni luogo vi sono de gli officii, che più sono servili che honorati (p. 114).

Nello stesso secondo libro Muzio affronta il tema della nobiltà dei mercanti già presente in altri autori, e lo risolve in senso positivo.

Si vuole da alcuni che per far mercatantia anchor si perda la nobiltà, il che quantunque anche da Dottori si tenga, pur in ciò è da stare alla consuetudine de’ paesi. Né io veggo, che questa di farla perdere sia giusta cagione, salvo se altri vilmente, o non lecitamente, o con fraude, et con non legittimi contratti, la esercitasse, che in tal caso non il mercatare, ma il vitio, perder la farebbe. Quando veramente la mercatantia sia grossa, et che honesto sia il modo del trafico, non mi pare, che ella della honorevolezza della nobiltà debbia altrui privare, essendo ella massimamente tanto utile, et tanto necessaria a gli honori et alle commodità della città, quanto ella è. […] Non basta che sia grossa ad essere honorevole: ma vuole anche essere honestamente et honorevolmente trattata. […] Honestamente, dico: che il gentiluomo non vi ha da metter le mani, ma da far governare il tutto per fattori, et non si ha da vendere il tempo; né da fare altri illiciti guadagni, (come ti ho detto) ma del tutto da far se ne ha uscita a giusto prezzo. (pp. 128-129).

Il tema, come abbiamo detto, non era originale, e quasi certamente dietro questo modello dei tre ceti e della nobiltà dei mercanti era la configurazione sociale e politica della Repubblica Veneziana, dove la nobiltà non poteva vantare antenati illustri in armi e dove il patriziato aveva radici mercantili. Ma il prestigio del mercante come del banchiere erano ormai diffusi un po’ ovunque nella penisola e in Europa, ed era giusto dare ad essi un titolo onorifico. Muzio insiste che i mercanti nobili sono soltanto quelli all’ingrosso (e in questo ha in mente Cicerone) che maneggiano derrate alimentari e altri beni di consumo, come la lana e le vettovaglie, indispensabili per il bene pubblico; e sono “nobili” se “fanno il prezzo giusto”. In questo consiste la loro “onestà”, il loro “disinteresse” o interesse giustificato, ed è un criterio che vale per le altre professioni come i medici e i notai, i quali operano per il bene pubblico. La loro “onestà” consiste nel non abusare del loro potere per danneggiare il pubblico; e le loro azioni non onorevoli sono il fare incetta di vettovaglie per venderle poi a prezzi alti: «dove corre l’interesse della borsa particolare, quanto altri è maggiore, tanto maggiormente gli si disconviene» (p. 130).

Il gentiluomo non dee farsi mercatante per avaritia, ma per esercitio, et per altrui comodità et utilità, che essendo l’huomo nato non solamente a se, dee darsi a qualche operatione, la quale altrui faccia giovamento, et mercatare, et oltra quel giovamento che da se porta altrui la mercatantia, non far altrui altro beneficio, né mostrare altra nobiltà di animo, farà credere, che chi così fa mercatantia, la faccia per lo solo guadagno. Et perciò è di mestieri farne anche altra dimostrazione. (p. 132 sg.)

Il terzo libro è dedicato in gran parte al tema delle armi e delle lettere e a quale delle due spetti il grado più alto di nobiltà. È prevedibile che prevalga lo spirito corporativo e che il letterato Muzio dia ai suoi simili la vittoria, ricordando che le lettere devono essere “oneste”, cioè non calunniose né eretiche, perché in tal caso disonorano gli autori:

[…] le puzzolenti scritture più disonorano i loro auttori, che offendono gli altri […] I mali theologi sono gli auttori delle heresie, i mali medici danno veleno sotto spetie di medicine, i mali giureconsulti con le loro cavillationi, co’ loro iniqui consigli, et con le loro false sentenze ci tolgono lo havere. (p. 206 sg.)

Non ci saremmo soffermati sul trattato di Girolamo Muzio se non contenesse il risultato di vari decenni di polemiche sulle idee di nobiltà e sul profilo del gentiluomo. Da esso traspare una realtà ormai profondamente diversa in cui l’onestade non è più quella dell’inizio del secolo perché non contiene più alcuna traccia di quel “sommo bene” terreno celebrato nel mondo della cortesia e nella cultura umanistica. L’“honesto vivere” è ormai un vivere secondo le norme che si possono riassumere nel seguente principio: «quale vuole felicemente vivere, principalmente è necessario che né egli faccia, né riceva ingiuria» (p. 209), ed è un principio che Muzio attribuisce a Platone. Ma soprattutto è un’onestade che non vive in dialettica con il criterio dell’utile. Le discussioni sulla nobiltà e sulla funzione che in essa hanno la ricchezza e i profitti mettono in crisi quel delicato rapporto tra l’utile e l’onesto sul quale si reggeva l’idea di “onestade”. Dopo tanto inchiostro speso ad esaltare la virtù contrapponendola all’utile, e dopo un fiume ancora più grosso di inchiostro speso a giustificare la ricerca “giudiziosa” dell’utile, la diade honestum/utile sembra dissolversi e dare origine a due ricerche rispettivamente indipendenti e autonome, e magari il gentiluomo occulterà l’utile perché macchierebbe la sua nobiltà, e il mercante se ne farà un vanto perché l’utile che egli cerca è procacciato “onestamente”, ossia con il “prezzo giusto”. Le annose discussioni sul rapporto nobiltà vs ricchezza nel loro vano tentativo di conciliare le due cose come era riuscito a fare l’Umanesimo civile degli Alberti, accentuò, di fatto, il divario fra le due nozioni, e forse proprio per questo non riuscì a chiudere le discussioni che si protrassero ancora per decenni. Per quanto riguarda la nostra ricerca sembra chiaro che nel secondo Cinquecento l’honestum/utile viva solo nei libri: nella realtà la ricerca de “il particolare” aggirava il rigore della “virtù” e dell’onorevolezza salvo a farsene uno scudo per coprire l’interesse: delicata operazione che s’iscrive senza difficoltà nella morale della “dissimulazione” in virtù della quale un volto di “onestade” copre un movente utilitaristico.

Il cortigiano.

Un altro filone di ricerca ci porta a conclusioni analoghe. Lo studio sulla nobiltà e sul “gentiluomo” mostra una parabola che porta progressivamente lontani dall’onestade e rivela tendenze utilitaristiche chiaramente destinate a prevalere. Una traiettoria analoga viene percorsa dalla figura del cortigiano, tipica anch’essa della civiltà rinascimentale. Questa appare ai primi del Cinquecento come un fulgido astro dell’“onestade” nella versione estetica, e per la fine del secolo diventerà un modesto impiegato, alquanto preoccupato del suo non prospero stato economico.

Il creatore di questa figura è Baldesar Castiglione, il quale in realtà continuava il tema del “perfetto cortigiano” già visto in Pontano. Non solo lo continuava, ma lo perfezionava idealizzandolo in un modo irripetibile perché quel “cortigiano” era il Castiglione stesso, il quale in carne propria mostrava come una vita diventi arte o come un’arte informi in modo integrale una vita: per questo possiamo considerarlo il vero creatore del “cortigiano”. Il modello da lui disegnato era destinato ad avere un’influenza immensa sulla cultura europea costituendo il prototipo del moderno gentleman. Forse nessun’altra opera quanto Il Libro del Cortegiano di Castiglione è riuscita a creare l’immagine di una civiltà, perché quel Libro è diventato la lente attraverso cui generazioni di lettori hanno visto un Rinascimento ricco di corti principesche e ducali frequentate da cortigiani aristocratici, impegnati in gioiose e dotte conversazioni nelle quali celebrano ed elaborano quelle forme ideali di vita che essi stessi incarnano e che tendono a perfezionare e a trasformare in modello. Il cortigiano che Castiglione è riuscito ad imprimere nell’immaginario occidentale è una persona perfetta: di gusto squisito, di maniere eleganti, d’integrità morale, di grande spirito e di cultura universale egli rappresenta e forgia insieme una civiltà anch’essa luminosa e perfetta. Questo cortigiano presuppone il mondo delle virtù morali, ma la sua fisionomia non le rivela come costitutive della propria identità: se nel suo nucleo centrale possiamo, anzi dobbiamo immaginare l’honestum, non c’è dubbio che esso viva in funzione dialettica non tanto con l’utile quanto con il turpe, come insegnava l’Ethica aristotelica, e quindi l’honestum del Cortegiano si spinge sul versante estetico, dove l’insieme delle virtù si manifesta come decorum, ossia con una caratteristica fortemente estetizzante. Non sarà un caso se uno dei testi ai quali il grande libro del Castiglione rimanda sia il De oratore di Cicerone piuttosto che il De officiis. Il Libro del Cortegiano ha consegnato ai posteri un’immagine duratura del Rinascimento italiano, ma era anche il libro che rappresentava un mondo ormai tramontato, benché vivissimo nella memoria e contemplato da lontano con nostalgia. Quando l’opera apparve era ancora possibile indugiare su ricordi di tal genere, ma la realtà dei fatti smentiva l’illusione che fosse ancora possibile trovare nelle corti o in altre situazioni italiane l’otium che favoriva la vita contemplativa e le conversazioni edificanti dove chi imparava sapeva anche insegnare, chi sapeva ascoltare con attenzione era anche capace di farsi ascoltare con uguale attenzione. Il cortigiano è un nobile che ha tutte le virtù cardinali e tutte le doti fisiche della bellezza e dell’indipendenza. La sua virtù caratteristica è il far apparire spontaneo e naturale ciò che in realtà è frutto di studio e di severa disciplina. Castiglione la battezza con il nome di sprezzatura, ed è una virtù che più tardi degraderà nella “simulazione”, un vizio tipico della “cortigianeria”, ossia la versione degradata dell’ideale cortigiano che si approprierà di alcuni attributi della “prudenza”. Il Cortegiano riesce a riunire in un modello letterario tutte le idee sul bello e sull’onesto che tanti trattati della cultura umanistica non erano riusciti a formulare con altrettanta efficacia. In effetti, la grandezza del Cortegiano sta anche nell’aver inaugurato un nuovo modo di presentare idee e tesi in lavori che con il tempo prenderanno la forma della “civil conversazione”, cioè di un modo di avvicinare i problemi e la vita rinunciando alla forma del trattato filosofico e sostituendola con la finzione di una conversazione, senza restrizioni di scuola e senza necessari omaggi alla religione o ai sistemi filosofici vigenti. È una strategia accolta da gran parte della letteratura del Cinquecento che seppe proporre idee nuove e fece capire il senso della vita culturale con opere dal formato “aperto” e quasi “svagato della conversazione”, riuscendo a toccare argomenti elusi dai trattati tradizionali o considerati sotto l’aspetto astratto degli “universali”. Il Cortegiano, nonostante la sua evidente “idealizzazione”, contiene anche tantissimi elementi di vita vissuta, a cominciare da quelli autobiografici dell’autore. La figura del cortigiano ne uscirà “composita”, eppure mai astratta perché è una figura “narrata” piuttosto che “descritta”, se così possiamo dire. Il che autorizza una considerazione generale che conferma quanto già osservato. Mentre la filosofia rinascimentale rimane complessivamente arenata nel discutere e raffinare problemi imposti in grandissima misura dall’aristotelismo e dal platonismo, e non presenta innovazioni sostanziali fino all’avvento dei nuovi grandi sistemi filosofici nel secolo successivo, la letteratura si muoverà con maggior flessibilità, molto più disposta a rispecchiare mutamenti e a rispondere ad esigenze culturali che sono sempre in movimento. Questo è anche uno dei motivi per cui lo studio sulla morale non presenterà vere innovazioni nell’ambito speculativo, mentre presenterà un panorama di gran lunga più mosso nella filosofia spicciola di simili conversazioni dove veramente il discorso morale tende a trasformarsi in insegnamento “pratico” nel senso che scenderà ad osservare la vita e della vita si nutrirà.

Il libro di Castiglione riuscì a sfatare il mito del «cortigiano vil razza dannata» che affondava le sue radici nel Medioevo e arrivava alle soglie del Cinquecento: si pensi ad opere quali Contra clericos aulicos di Pier Damiani, o il Policraticus sive nugae curialium et vestigia philosophorum di Giovanni di Salisbury, o le Nugae curialium di Walter Map, e ai discendenti quali il De vita curiali di Alain Chartier, il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Pio II) o il Libro del cortesano di Diomede Caraffa (1484) in cui si mostra come la curialitas o quel misto di sapientia e militia si degradi spesso in cortigianeria, piena di perfidie e di ipocrisie. E fu inimitabile, perché nessun altro libro riuscì a descrivere un ideale di grazia e a dare un’idea di quel “giusto mezzo” fra gli eccessi viziosi teorizzato da Aristotele quale poteva essere quello della “sprezzatura”, così perfettamente equilibrata fra la potenziale affettazione e l’imprudente e irruenta spontaneità. Era un ideale che poteva uscire da una corte italiana ed essere adottato da una corte tedesca o francese, e ispirare sia un aristocratico che un “mercante” o un cittadino.

Chi tentò di imitarlo, come Agostino Nifo, non poté raggiungere quei vertici, anche se usava il latino, quindi una lingua internazionale. Il De re aulica del sessano Nifo, pubblicata nel 1538 quindi a dieci anni di distanza dal Cortigiano, annuncia fin dal titolo un trattato; e, in effetti, esordisce con la “definizione” di ciò che è “corte”, rivelando immediatamente la natura filosofica della ricerca. La corte dove Nifo ubica i suoi personaggi non è quella di Urbino ma una corte qualsiasi, astratta e senza storia. Nel trattato domina una ricerca analitica, per cui le divisioni, le virtù, i vizi e l’insieme dei doveri del cortigiano sono considerati singolarmente senza arrivare a sintetizzarsi in una persona. Così, mentre il cortigiano di Castiglione è insieme conversatore e consigliere del principe, il cortigiano di Nifo è o un “conte palatino”, ossia un consigliere vero e proprio, o un conversatore che intrattiene il signore con il suo umore e le sue facezie o anche con la sua cultura. E sono due persone distinte, e a loro volta distinte dai “servitori” che hanno altre mansioni pratiche nella corte. In questo modo si frantumava l’integrità del modello castiglionesco e si perdeva la forza idealizzante che esso rappresentava, e il suo posto veniva preso da una precettistica astratta, nonostante il tentativo di ravvivarla con esempi ricavati dalla miglior tradizione retorica. Eppure quella frammentazione apriva spiragli verso un tipo di realtà astratta quanto si vuole, ma non per questo meno verace. Le considerazioni sui cortigiani che intrattengono il signore, il loro continuo pericolo di scivolare nell’adulazione, nella “cortigianeria” peggiore non sono del tutto inventate da Nifo, e, infatti, ricordano quei “cortigiani vil razza dannata” purtroppo molto comuni nelle corti. Nifo non era uomo d’intelligenza volgare, e capiva che la carica di platonismo con cui Castiglione aveva creato il suo modello di cortigiano aspirava a celare una realtà sotto un velo di idealità. Il fatto che l’opera venisse tradotta liberamente in italiano da Francesco Baldelli con il titolo Il Cortigiano del Sessa (1560)13 dimostra che ancora a vari decenni di distanza poteva offrire un modello di cui ormai si sentiva nostalgia, non foss’altro che per contrapporlo alla perdita totale di una figura che già veniva sostituita dal “segretario”.

In effetti, lo stesso anno in cui Nifo pubblicò la sua opera cominciò a prender vita la vecchia tradizione anti-cortigiana che imputava ai cortigiani il rancore verso i signori. Lo prova il Ragionamento delle corti di Pietro Aretino (1538) e quella strana e anonima opera intitolata Il novo corteggiano, di datazione incerta e non del tutto centrata sulla corte; ma lo provano soprattutto due opere di Antonio de Guevara, Aviso de privados y doctrina de cortesanos e Menosprecio de corte y albanza de aldea, entrambe tradotte in italiano da Vincenzo Bondi come Aviso de favoriti e dottrina de cortigiani con la commendatione della villa – libri14 il cui successo, dovuto soprattutto alla forte personalità dell’autore, rinfocolò il vecchio tema dei mali della corte, di cui si sentono echi ancora negli anni ’50 con il Dialogo della corte di Ludovico Domenichi (1552). Per giunta la moda delle “oneste cortigiane” non gettò luce positiva sulla figura del cortigiano, in parte invidiata e in parte disprezzata. Una volta caduta in penombra la trattatistica anticortigiana, si vide nascerle al fianco un altro filone di trattati che tenevano conto di una realtà mutata in cui il cortigiano mutava profilo e prestazioni. Sempre attorno agli stessi anni ’50 cominciava a prender piede un genere di opere che si teneva lontano sia dalle condanne sommarie sia dall’esaltazione idealizzante del cortigiano, e non si preoccupava tanto della sua «libertà» e reputazione quanto invece della sua “professionalità”.

Il cortigiano tende a diventare un professionista con ruoli ben più modesti di quanto non avessero i Mario Equicola, i Castiglione e i Fulvio Rangone a cavallo fra i due secoli; tuttavia la sua professione, nonostante i pericoli e i rischi e la progressiva perdita del fascino del lavoro a corte, offre sempre una sistemazione altolocata alla quale il buon letterato può aspirare. Un mutamento in tal senso si coglie già nel trattatello di Celio Calcagnini, De patientia seu de curiali vita, scritto con tutta probabilità nel decennio del 1530, sicuramente prima del 1541, anno in cui Calcagnini morì, e pubblicato postumo dal nipote nella raccolta delle opere complete nel 1544. Vi troviamo la consueta immagine della corte in cui muore la libertà degli studi, in cui si congregano adulatori e supposti amici, pronti sempre a tradire per vantaggi personali; eppure chi deve viverci si può difendere non con l’astuzia o con la prudenza, ma con la pazienza, la virtù più efficace in un mondo infido. La pazienza è una virtù a sfondo stoicheggiante che suade adattabilità alla sempre cangiante situazione della corte e agli umori del signore, una specie di difesa interiore, che non è viltà né adulazione ma solo una forma di rinuncia e sofferenza – abstine ac patere – che almeno raffrena dal cadere nei peccati tipici di chi cerca vantaggi esterni e materiali. Il cortigiano trova così una deontologia, un dovere verso se stesso, un senso della moralità che si associa tipicamente all’idea di “professione”. Calcagnini non arriva a parlare ancora di un cortigiano professionista, ma pone le basi per farlo.15

In effetti, qualche anno più tardi rispetto alla data di composizione del trattatello di Calcagnini apparvero i Discorsi ne’ quali si ragiona di quanto far debbono i gentilhuomini ne’ servigi de’ lor signori per acquistar la grazia loro (1543) di Pelegro de Grimaldi Robbio.16 È un trattato che parte dalla esplicita consapevolezza che il miraggio del perfetto cortigiano disegnato da Castiglione sia irraggiungibile, affatto impraticabile e quindi difficilmente traducibile in termini didattici. Il cortigiano veramente “impiegato” da una corte può trarre scarso vantaggio da simili idealizzazioni; a lui semmai occorrono consigli pratici, una sorta di vademecum che lo prepari a quel difficile lavoro e lo guidi nella prassi quotidiana. Da questa esigenza nasce la precettistica sulla vita e sulla funzione del cortigiano, e con essa s’inventa un nuovo tipo di trattato in cui non si vitupera più la corte né si costruiscono modelli inattingibili, forse perché legati a tempi ormai lontani, a realtà storiche non più esistenti.

Uno degli autori che inaugurò la letteratura in tal senso è Giovanni Andrea Gilio che scrisse il Dialogo del letterato cortigiano proprio a ridosso della chiusura del Concilio di Trento. Torneremo presto sulla sua opera; per il momento ricordiamo qualche trattato che gli si affianca per capire meglio la direzione in cui Gilio si muoveva. Una menzione merita sicuramente Giovanbattista Giraldi Cinzio per il suo Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile et ben creato nel servire un gran principe,17 pubblicato a Pavia nel 1569, ma composto nel 1565, quindi in data vicinissima a quella in cui Gilio compose il suo dialogo. Il discorso giraldiano è molto diverso nella forma e nella natura dei materiali dal suo vicino; eppure una cosa li accomuna, ed è l’idea del “servire” presente fin nel titolo del Discorso. Il termine ha di solito una connotazione negativa; ma in questo caso la perde, perché si accompagna sempre all’idea di onore, e il vil servire diventa un “servire onoratamente”, espressione che equivale a quelle onorevolissime di “servire la patria” o “servire la Chiesa”. Non a tutti però era ovvio che così fosse: non lo era ad esempio a Tasso, che nel dialogo Il Malpiglio sostiene che la servitù cortigiana è servitù pura e semplice, e non è in nessun modo paragonabile a quella del cittadino di una repubblica il quale “serve”, sì, la sua patria, ma lo fa partecipando al comando della stessa. Comunque l’idea del “servire onoratamente” era destinata ad imporsi e ad acquistare una valenza positiva, perché il “signore” veniva trasformato nella persona che incarna il potere in cui riposa il bene di uno stato: pertanto servire lui significava servire la patria.18 In questo modo il riscatto era assicurato: diventava prudenza quella che era sottomissione ad un signore suppostamente inferiore in sapere; si riteneva fortezza l’ubbidire qualunque fosse il comando; si considerava fedeltà quella che era pura dipendenza di lavoro; si trasformava in ossequio quella che era adulazione. Quel riscatto prende però un’altra forma in cui la libertà viene compromessa solo fino ad un certo punto, ed è che il cortigiano tende a diventare “segretario”, e in alcune corti, specialmente in quelle cardinalizie, egli può avere mansioni riguardanti l’amministrazione domestica, da maggiordomo a credenziere. Ad una sola cosa il cortigiano non può rinunciare: queste sono le lettere, perché in esse riposa tutta la dignità che gli altri aspetti della cortigianeria possono sottrargli.

Il cortigiano era diventato un “segretario”. Il mutamento si conguaglia con il cambio che vediamo nel mondo delle corti, le quali subiscono a loro volta l’influenza del grande fenomeno della rifeudalizzazione e la proliferazione delle corti dei signorotti di provincia e delle corti cardinalizie, numerose a Roma e con ramificazioni nel resto dell’Europa. Il cortigiano del periodo umanistico e del primo Rinascimento era un umanista e un ambasciatore, un intellettuale chiamato a partecipare del potere almeno come consigliere. Il nuovo tipo di cortigiano è ormai un buon letterato che ha mansioni da estensore di lettere, di verbali, di orazioni e qualche volta di problemi legali. È un “impiegato” e non più un intellettuale di primo livello. Il suo ruolo gli consiglia la prudenza e la discrezione. Nel suo animo cresce quella disposizione alla “dissimulazione” che presto diventerà una difesa sociale così diffusa da creare una caratteristica delle consuetudini del tempo. Non è necessario aggiungere che le virtù minori della discrezione (versione in minore della temperanza) e della cautela (una semplice ombra di quella virtù maggiore che è la prudenza) non celano la preminenza che viene accordata all’aspetto dell’utile che l’honestum riusciva a bilanciare e ad integrare nel bello. Il cortigiano/segretario non ha in mente il bene comune quanto il proprio “particolare”.

L’importanza di questa figura si deduce dal numero dei trattati che ne fecero il proprio tema centrale. In primo luogo si può ricordare Il secretario di Francesco Sansovino, pubblicato originariamente in quattro libri (1564) ed ampliato a sette in una redazione successiva (1579). Sansovino si sofferma appena sull’aspetto etico di questo nuovo professionista, limitandosi a ricordargli la cautela e la discrezione. Insiste invece molto sull’aspetto culturale, sulla formazione che lo abilita ad assolvere il suo compito. Questa preoccupazione fa del trattato un manuale sul come comporre un’epistola, cominciando dai criteri ortografici e interpuntivi a tutti gli aspetti riguardanti il modo di indirizzare una lettera, le formule di congedo, i topoi ai quali far ricorso nelle diverse occasioni, tanto che non si sbaglierebbe di molto inquadrandolo nella tradizione della ars epistolandi. Il che è un indice della funzione ritenuta primaria per il cortigiano/segretario. Lo stesso si può dire de Il secretario di Giulio Cesare Capaccio (1589), nonostante le proclamate differenze rispetto all’opera di Sansovino. Anche questo trattato, proveniente da un ambiente della corte regia napoletana, è in sostanza un manuale, addirittura un prontuario per gli estensori di lettere per conto del regnante. Per quel che riguarda le qualità morali del segretario, si insiste su discrezione, cautela e lealtà. La professione viene elevata un pochino nel Del buon segretario di Angelo Ingegneri (1594), perché al segretario si richiede una cultura universale e un saggio giudizio per poter consigliare il signore. In questo profilo l’Ingegneri tiene presente il dialogo Malpiglio del suo amico Tasso e cerca di rendere rispettabile la figura del letterato al servizio del principe. Nello stesso anno (1594) Battista Guarini pubblicò Il secretario, opera ben più ambiziosa di quelle precedenti, perché, oltre ad allargare la deontologia di quella professione, cerca di capire la psicologia del professante, il modo in cui egli vive la sua professione. Già il titolo spiega l’ampiezza degli argomenti presi in considerazione: Il segretario. Dialogo nel quale non sol si tratta dell’ufficio del segretario, et del modo di compor lettere, ma sono sparsi molti concetti alla retorica, loica, morale, et politica pertinenti. La varietà degli argomenti indicati potrebbe far pensare ad un’opera rapsodica e dispersiva, ma in realtà quegli argomenti sono unificati dalla figura del segretario, il quale deve essere competente in tutte queste materie, ma soltanto per dar maggior persuasività e forza alla parola del signore che rappresenta. E questo perché il segretario deve prestare le sue parole alle idee e volontà del signore, parole che ne assicurino il decoro, l’efficacia e la sembianza di giustizia. Nel trattato troviamo squarci di logica che spiegano la differenza fra il sillogismo e l’entimema, oppure la differenza fra retorica e dialettica, ma non per il gusto di esibire un sapere specialistico, bensì per far capire che il segretario deve conoscere bene questi strumenti per comporre una lettera che ottenga l’effetto desiderato al livello ottimale. Nel corso di tali osservazioni sulla cultura del segretario ci si imbatte anche nel tema dell’onesto e dell’utile che i trattatisti precedenti avevano ignorato. Ciò avviene a proposito delle “lettere di negozio”, ossia lettere su «azzione concernente interesse o pubblico o privato» (p. 152 ed. Megietti, Venezia 1600), e in genere trattative politiche o affari pubblici. Queste lettere perseguono l’utile, ma il loro successo è maggiore se quell’utile collima con l’onesto. Segue una discussione sul come sia possibile avere per fine l’utile e realizzare l’onesto che si persegue per se stesso. Guarini affronta il problema risalendo alle definizioni di utile ed onesto date nella “Rhetorica” di Cicerone (De oratore) e nella Rhetorica di Aristotele, quindi intese come “loci” più che come principi. E ricorda che esiste un onesto universale, perfettamente sinonimo di “giusto” universale (per es. non ammazzare) e un onesto particolare che è quello “ordinario” e relativo alle cose trattate, e si può chiamare “equità” (pp. 158-162). In questo modo, non veramente lineare, Guarini trova che nei “negozi” bisogna non prescindere dai valori universali, e bisogna realizzare la “equità” fra due interessi, e qualora ciò avvenga si giunge alla “buona fede”, cioè al rispetto dei patti e alla realizzazione dell’utile per le due parti contraenti il “negozio”. Come si può capire siamo ben lontani dall’honestum da cui ha preso i primi passi la nostra ricerca. Infatti, se nel parlare dell’onesto universale ridotto a “giustizia” universale Guarini ritiene di poter vedere tutte le virtù, esso non è mai il sommo bene di cui parlavano gli antichi né il “bello” che guida l’attività morale in generale. Per intenderci meglio: l’onestà non costituisce il principio della morale, ma è un locus retorico che dà fondamento e credibilità ad una lettera di affari. E soprattutto quell’onestà non è un’acquisizione personale del “segretario”; semmai lo è del signore, che si serve del segretario per esprimere i suoi pensieri. L’onestà non è più una ricchezza morale, ma è uno strumento argomentativo. Il “segretario” descritto da Battista Guarini incarna pienamente questo nuovo personaggio comparso nelle corti, il quale ha una sua vita privata che “cela” nel proprio animo, e una vita pubblica che si manifesta nel prestare la propria arte retorica al signore che lo stipendia. La forma del suo lavoro non manifesta il suo modo di sentire, ma si sforza di essere efficace per la conservazione del proprio lavoro. L’utile ha finito per prevalere nella vita privata, ma una parvenza di honestum ne occulta almeno gli aspetti più egoistici, anche perché accamparli in primo piano rischierebbe di dissolvere ogni senso di “società”. E così anche la parabola dal brillante cortigiano al grigio segretario si allinea con le altre che abbiamo visto e che vedremo in un Cinquecento che divide l’honestum dall’utile e corre verso una morale che s’impernia sull’utile e salva le apparenze dell’onesto.

Il tema dell’amore.

Il tema dell’amore percorre una traiettoria verso la dissoluzione e il distanziamento dalla virtù analoga a quella già vista per gli altri temi. L’argomento era uno dei “magnalia” della letteratura del Cinquecento e aveva lontane radici nel Medioevo, precisamente nel mondo della cortesia e dell’amore cortese. Per noi è un tema obbligato in quanto nell’amore fisico si combinano e si scontrano le tendenze sia a possedere che ad ammirare l’oggetto amato, pertanto presenta in contrasto e/o in armonia gli elementi dell’honestum e dell’utile. Se si considerano le vie e i modi e l’infinità delle tradizioni letterarie che ne affiancarono la storia, si capisce facilmente lo spessore e la presenza di un tema simile. Non è il caso di ricordare che la nascita dell’onestade è strettamente legata alla “cortesia”, perché, come dice Dante, «cortesia e onestade è tutt’uno» (Convivio, II, 10, 8). Né conta ricordare nei dettagli la storia che la nozione di amore imboccò nel Quattrocento, perché la cultura dell’Umanesimo civile la convogliò verso il discorso del “matrimonio” ossia di un’unione “onesta” e utile alla società. Anche la poesia “cortigiana” dei Serafino Aquilano o dell’appassionato Boiardo guardò con una certa diffidenza i tentativi di legare l’amore alla virtù e alla saggezza, come avevano fatto Petrarca e prima di lui gli amanti cortesi, e insistette invece sulla dimensione fisica o corporea e sociale dell’amore. Ma proprio nella seconda metà del Quattrocento, il tema ricevette un impulso filosofico tale che, non solo valorizzò la nozione dell’amore, ma la trasformò in una chiave della perfezione spirituale che avvicina l’uomo al divino. Si parlò dell’amore platonico e neoplatonico che permeò la cultura del tardo Quattrocento da quando Marsilio Ficinio nel 1469 pubblicò il suo Commentarium in Convivium e da quando lo discusse Pico della Mirandola nel commento alla canzone di Benivieni; infine ai primi del Cinquecento entrò nella letteratura in volgare grazie a Pietro Bembo.

Pietro Bembo.

Da questo rappresentante “olimpico” ed eccelso del rinnovamento dobbiamo prendere l’avvio perché rappresenta il punto più alto toccato dalla nozione dell’amore, e rispetto a lui si commisura la parabola discendente che troverà il suo punto più basso nel materialismo della fine del secolo. I dialoghi degli Asolani di Bembo (1505) sono dedicati al tema dell’amore, e riprendono le teorie di Ficino collocando i valori morali in una sfera lontana dal mondo della politica e dalla pratica, sublimandoli nella speculazione che culmina nella visione della bellezza divina. Ficino aveva valorizzato la funzione dell’amore di cui gli umanisti avevano parlato in modo negativo in quanto causa di turbamento psicologico e di comportamenti irrazionali, come sosteneva, ad esempio, Alberti nella Deifira. L’amore non era solo degli uomini, ma di tutta la natura che nell’amore trova la sua forza unificatrice e armonica. In quello degli uomini Ficino distingueva l’amore divino da quello spirituale e da quello bestiale, ossia carnale, e lo concepiva come una tensione verso il bello divino e un allontanarsi dai sensi del corpo. Il bello era per lui luce radiosa, un raggio emanato da Dio, e l’amore era una reminiscenza e una riscoperta di quella luce. I suoi studenti, in particolare Cattani da Diacceto, contribuirono a diffondere queste teorie di stampo chiaramente platonico e neoplatonico, anche se proprio Cattani da Diacceto non rifiutò categoricamente l’aristotelismo, anzi vide nell’Ethica Nichomachea un insegnamento che prepara “civilmente” gli uomini all’ascesa verso la contemplazione della bellezza divina. Bembo trasferì quel codice filosofico al campo della poesia volgare e ne indicò il nucleo ispiratore nella tensione verso la bellezza muliebre come riflesso della bellezza divina. Secondo lui, questa tensione era presente in modo insuperato nella poesia di Francesco Petrarca, che, di conseguenza, fu promossa al ruolo di modello sublime. La fortuna del petrarchismo nel Cinquecento ha radici nel legame tra platonismo e poesia amorosa stabilito da Bembo, al quale si deve anche il contribuito epocale della pubblicazione delle Rime di Petrarca nel 1501 presso l’editore veneziano Aldo Manuzio. Si riallacciava così un vecchio legame che la poesia cortese aveva stretto con l’etica. Non ci si chiede mai perché il tema amoroso dominò in modo pressoché incontestato la poesia cortese e rimase un tema dominante fino al Seicento. La spiegazione è che i trovatori e i poeti italiani da Guittone in poi avevano legato la poesia amorosa alla morale, avevano visto l’amore come fonte di virtù e come strumento di perfezionamento morale. Bembo parla di un amore che attinge il sommo grado di perfezione spirituale e morale quando l’anima s’identifica con il bello e lo abbraccia, un bello che ha scintille del divino e che si cerca per sé senza altro compenso che il piacere stesso di contemplarlo. Quest’amore ha un corrispondente perfetto nell’honestum, nella virtù che si cerca per la propria bellezza. È l’amore “onesto” che si distingue da quello “brutto” radicato nella sensualità. L’amore buono si realizza attraverso la vista, l’udito e il pensiero, cioè con i sensi nobili e con la facoltà di volere bellezze immateriali. Tuttavia l’amore buono è basato sul desiderio e pertanto è sempre condizionato da un appetito che non può approdare alla felicità, che è anche libertà in piena adesione con l’oggetto amato. È la tesi che si ricava dalla conclusione del libro, dal discorso fatto dall’Eremita in risposta a quanto afferma Lavinello. Tale conclusione si capisce meglio se riepiloghiamo il contenuto dei dialoghi. Nel primo libro l’amore viene presentato in termini negativi in quanto causa di tormento. Nel secondo viene difeso come uno dei piaceri più autentici e più naturali: l’amore, voluto dalla natura, non può essere causa di male se lo si regola come la natura stessa ci consiglia di fare. Nel terzo libro si parla di un amore il più lontano possibile dagli aspetti naturali dell’uomo. Protagonisti del dialogo sono Lavinello, il quale definisce l’amore in termini filosofici:

Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate scuole degli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buon amore che di bellezza disio. La qual bellezza […] non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce e d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi, et è accidente negli uomini non meno dell’animo che del corpo.19

Il Romeo, ossia l’Eremita che ha l’ultima parola, ripudia la nozione che nell’amore vero sia presente il desiderio, perché l’equazione desiderio=amore implica una manchevolezza che nega la perfezione data nell’amore onesto. Questo non conosce più il desiderio perché ha realizzato la conoscenza perfetta del bene amato, e la volontà riposa nel bene conosciuto. In realtà il Romeo procede dicendo:

Perciò che non è il buono amore desio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio; e la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa, ma è divina e immortale, alla qual per avventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella maniera, che esser debbono, riguardate (III, 17, p. 491).

L’idea di un amore siffatto porta la nozione platonica invocata da Lavinello – addirittura riportando la precisa definizione dal Convivio di Platone “amore è desiderio di bene” – ad un punto estremo non dissimile da quel rigido honestum che consuma in sé ogni residuo di utilità. Il passo finale all’amore divino rientra anch’esso nel sistema platonico, e si potrebbe far coincidere con il modo in cui i teologi cristiani vedevano l’honestum: quasi una tappa preliminare verso la conquista del vero bene eterno, una sorta di sommo bene terreno che prepara la via per accedere al bene divino. L’idea di un amore siffatto diventò un punto di riferimento per tutta la letteratura sull’amore che nel Cinquecento ebbe una diffusione straordinaria, specialmente se alla produzione poetica si affianca tutta la vasta produzione di trattati e di dialoghi che per tutto il secolo mantennero in primo piano il tema dell’amore. Non si esagera dicendo che questo tipo di amore bembiano prese il posto che le culture anteriori avevano conferito all’honestum del quale sembra conservare alcuni tratti formali: il bello in sé da amare disinteressatamente, sempre vittorioso contro il piacere erotico o l’egoismo sensuale. Ma era un amore costantemente minacciato dalla tentazione del corpo, come l’honestum era sempre minacciato dall’utile, tanto che per esorcizzarlo doveva assorbirlo e trasformarlo in una sua parte integrante. Il corpo, come vedremo, non accettò una simile esclusione dalle gioie dell’amore e nel corso del tempo conquistò il suo spazio. Bembo sapeva benissimo che quel desiderio che turba la purezza dell’amore era anche la fonte maggiore della poesia amorosa, come dimostrano i primi due libri degli Asolani, mentre il terzo libro traccia un ideale al quale si deve aspirare per superare gli impedimenti fisici o materiali che trattengono l’anima in questo mondo. È un ideale così spirituale e aristocratico che ha tutti i segni dell’evasione, della liberazione per attingere un qualcosa di stabile e che abbaglia fino all’estasi con la sua bellezza. Le culture hanno bisogno degli ideali perché in essi compongono tutte le tensioni che le dilaniano, da essi ricavano modelli nobilitanti, e su di essi basano la propria paideia o principi che vorrebbero tramandare celebrandoli. Così potente fu questo ideale dell’amore ficiniano-bembiano che per varie generazioni trovò grandi paladini pronti a riproporlo e a rinnovarlo. Potremmo cominciare a ricordarli partendo dai Francesco Cattani da Diacceto con il Panegiricus de amore (1511), e ricordare Leone Ebreo con i suoi Dialoghi d’amore (1535), Tullia d’Aragona con il trattato L’infinità d’amore (1547), per finire con Francesco di Vieri, detto il Verino secondo, con il suo Sopra le meraviglie di Pratolino e d’Amore, (1587) e le sue Lezzioni d’amore, rimaste inedite fino ai tempi recenti. Sono trattati che in genere si occupano dell’amore come forza che tiene unito il cosmo, e solo marginalmente trattano dell’amore sensuale o erotico, solitamente considerato il più basso e addirittura “bestiale”.

Ma quegli ideali avevano i loro demolitori che finirono per prevalere, tanto che già nell’ultimo quarto del Cinquecento il discorso sull’amore ficiniano-bembiano era giunto all’esaurimento. L’armonia del mondo avrebbe presto trovato spiegazioni scientifiche che avrebbero sostituito la nozione di amore divino e cabalistico; e l’amore come attrazione del bello trascendente rimaneva una nozione contraddetta dall’esperienza universale, che conosceva invece l’amore come attrazione fisica immanente. L’amore fisico, diversamente dalla nobiltà, che rimane una nozione astratta e che interessa un numero limitato di persone, è un’esperienza universale che la natura impone perché è all’origine della conservazione della specie umana, e pertanto sembra ingiusto giudicarla negativamente. Era una constatazione che non poteva rimanere senza conseguenze, e il compito maggiore sarebbe stato quello di affrancare l’amore fisico dalla “bestialità” imputatagli dai ficiniani. Di solito le asserzioni della filosofia speculativa venivano contestate al livello della “civil conversazione”, ma nel caso dell’amore platonico l’impresa si dimostrava piuttosto ardua, perché la letteratura, specialmente la poesia, esaltava quel tipo di amore. Ma nel caso dell’amore, intervenne anche la filosofia a contestare la superiorità dell’amore ficiniano, per cui in modo parallelo e opposto nacque una trattatistica che puntava sull’esperienza comune per relegare nel mondo dell’iperuranio l’idea di un amore della bellezza ideale.

Era una trattatistica di matrice peripatetica, come del resto era prevedibile in quanto, per combattere il grande prestigio del platonismo, bisognava valorizzare l’aristotelismo, e se non era possibile ottenere il sopravvento, era almeno auspicabile trovare una “concordia” fra i due sistemi. Tuttavia nel nostro caso specifico il problema maggiore era che né Aristotele né i suoi seguaci avevano dedicato studi particolari al tema dell’amore erotico, e questo lasciava un ampio margine di originalità a chi da una base peripatetica si volesse occupare dell’argomento. Questo impegno se lo assunse Agostino Nifo. Ma prima di occuparci del suo De pulchro et de amore, bisogna ricordare l’opera di Mario Equicola, che trasse i suoi materiali proprio dai poeti oltre che dai filosofi, e fu, tra l’altro, buon amico di Nifo, il quale usò alcune delle sue idee.

Mario Equicola.

Il De natura de amore di Mario Equicola apparve nel 1525 dopo una considerevole e lunga gestazione e godette di un successo notevolissimo – tredici edizioni fino a quella del 1607 e traduzioni in francese e forse in spagnolo – probabilmente perché sopperiva al bisogno di una ricerca “naturalistica” sul tema amoroso, e forse perché era il momento opportuno per trasferire il discorso dall’accademia alla corte, come del resto conferma anche Il Cortegiano di qualche anno posteriore. L’opera è suddivisa in sei libri nel primo dei quali Equicola fa una rassegna degli autori che hanno toccato l’argomento, pensatori come Ficino e Cattani da Diacceto o Bembo, e poeti come Guittone, Dante e il Roman de la Rose o i trovatori. Quindi nel secondo intraprende ad esporre le sue idee sull’amore che avrebbe la scintilla prima nell’amore di se stessi, ossia la filautia di cui parla anche Aristotele (Et. Nic. IX, 7-8, 1168 a-b), e poi in quello naturale dei genitori verso i figli; ed è interessante rilevare che Equicola non parli mai dell’amore come forza cosmica, argomento caro ai ficiniani. L’amore in sostanza è desiderio di bellezza fisica. Nel terzo libro si studiano le varie forme d’amore – per Dio, per gli angeli, per gli uomini –, e sono tutte forme d’amore che prendono il nome di carità o di benevolenza. L’amore fra le persone, oltre ad essere “benevolenza”, prende anche la forma dell’amore erotico, e ad esso è dedicato per intero il quarto libro. Nel libro successivo si esaminano i modi per suscitare l’amore, e si dimostra che le influenze astrali e gli umori non hanno alcun ruolo nell’amore, mentre li hanno i fattori della variabilità del comportamento e della bellezza fisica. Il sesto libro rappresenta una brusca e imprevedibile virata: l’amore che veramente conta è quello eterno, l’amore di Dio. La svolta dell’ultimo libro sembra un omaggio alla religione e anche alla tradizione platonizzante, poiché la tesi generale del libro era chiaramente dedicata all’amore sensuale e al modo migliore di viverlo.

Il libro De natura de amore non è un trattato “filosofico” poiché gli manca il rigore della dimostrazione, ma sopperisce a questo limite con la rassegna di dati il cui peso cumulativo è senz’altro probativo alla maniera delle opere di natura enciclopedica, e questa di Equicola è per tal verso una sorta di enciclopedia, un po’ caotica, rapsodica e lussureggiante di dati. L’impegno dell’autore era redimere l’amore fisico dalla “bestialità” con cui lo classificava il ficinianesimo; e lo redimeva esaltandolo come una forza naturale avente una sua “liturgia” che serve a distinguerlo dall’amore delle bestie. Non è una malattia né un furore insano, ma è una forza positiva, controllabile dall’uomo perché non ha i caratteri della “fatalità” che gli si attribuiscono. Un uomo può amare una donna non per influenza delle stelle, ma per un’attrazione particolare, la quale con il tempo può esaurirsi e mutare oggetto amando altre persone. L’attrazione per una persona non significa che questa sia attraente in senso universale e per tutti, ma solo in senso particolare per chi l’ama; e ciò conferma che l’amore umano sia libero da influenze astrali e dalle leggi naturali che invece sembrano regolare la vita degli animali. L’amore che Mario Equicola onora è del tutto “immanente”, concreto, reale, variabile e universale. Glielo insegna la poesia d’amore e glielo insegna l’esperienza. Che sia un fenomeno “corporale” si deduce anche dall’importanza che i sensi acquistano in esso. Equicola, infatti, altera la tradizionale gerarchia dei sensi dando il primo posto al tatto e all’odorato anziché ai sensi nobili della vista e dell’udito; con il tatto si conosce concretamente la bellezza, e l’odorato ha un ruolo importantissimo nell’amore sensuale: sono questi i sensi che danno veramente un contenuto corporeo all’amore erotico.20 Sono spunti che l’amico Nifo svilupperà con rigore filosofico.

Agostino Nifo.

Agostino Nifo affrontò il tema in due saggi separati ma complementari, il De pulchro e il De amore: dato che l’amore è “desiderio di bellezza” è giusto che si stabilisca in primis cosa sia il bello. Furono pubblicati entrambi nel 1531, quindi subito dopo il Cortegiano e negli anni in cui Sperone Speroni componeva il suo trattato sull’amore del quale presto ci occuperemo. Quelli di Nifo sono anche gli ultimi ad essere scritti in latino, perché a partire dagli anni ’40 il genere dei “trattati d’amore” continuerà a vivere esclusivamente in veste volgare, prova del fatto che l’argomento fosse ormai di pertinenza aulica o cortigiana e non più accademica. Le tesi di Nifo hanno un’importanza epocale, e di esse si accorsero i contemporanei, come Tasso, ma non si può dire lo stesso per i secoli successivi: solo recentemente sono state fatte oggetto di studio da Laurence Boulègue, che le ha illustrate e contestualizzate pervenendo a conclusioni alle quali qui ci atteniamo.21

Nifo rifiuta la nozione ficiniana che il bello sia qualcosa di incorporeo e sia essenzialmente “splendore”, e accetta invece la definizione peripatetica secondo cui sarebbe simmetria, proporzione e soavità di colori che piace e si diffonde nell’animo dell’amante. Con questa nozione si passa dal piano dell’intelletto e della volontà a quello dei sensi. Ne consegue che il “desiderio dell’oggetto” non sia di natura intellettuale e morale (la ricerca del bene) ma desiderio di bellezza fisica. È quella che in latino si chiama cupido, desiderio di congiungersi con una bellezza fisica. L’amore di cui Nifo parla non è legato al desiderio di trasmettere il sapere – come lo è quello omosessuale dei ficiniani – ma è decisamente amore eterosessuale, e non è necessariamente determinato dal fine utilitario della riproduzione. Poiché è un amore percepito dai sensi, il bello che si desidera è solo quello umano, non il bello della natura né il bello artistico. Siamo ben lontani dall’eros platonico basato sulla “reminiscenza”. Quasi in apertura del De pulchro (cap. 5) Nifo descrive la bellezza di Giovanna d’Aragona seguendo lo schema dei modelli presentati nelle poetriae medievali, procedendo a descriverla dalla testa ai piedi, e non per ossequio cortigiano ma per offrire un modello concreto della bellezza fisica di cui intende parlare. In quel ritratto niente sfugge all’osservazione minuziosa e tutta “sensuale”, tanto che non manca di sottolineare persino il profumo dell’alito («anhelitu, qui ex eo [dalla bocca] exhalat admirabilem odoris suavitatem redolente» (p. 16, 29-30) [«il fiato che da essa esala, ha il profumo di una soave dolcezza»] e del seno: «mamillae rotundae decenti mensura correspondentes suavissimo fragrantes odore persicis pomis persimiles redolent» (p. 16, 36-37: «le rotonde mammelle che nella loro decorosa misura corrispondono al resto del corpo ed esalano un profumo soavissimo molto simile a quello delle pesche»). I sensi hanno un’importanza primaria nel fenomeno dell’amore fisico, e sono fondamentali non solo i sensi che rilevano le proporzioni e l’armonia (la vista e l’udito), ma, e in posizione addirittura prioritaria, i sensi che conoscono per contatto diretto l’oggetto dell’attrazione, ossia il tatto e l’odorato. Naturalmente tutti i sensi collaborano nel suscitare l’attrazione verso la bellezza, e ad essi Nifo dedica non pochi capitoli del De amore. I sensi cercano nella bellezza un appagamento o soddisfazione speciale che si chiama “voluttà”. La valutazione dei sensi dà una dignità a quel corpo che il neoplatonismo ficiniano considerava un impedimento alla fruizione della vera bellezza, che è sempre un’idea della divinità. Il piacere dei sensi non è in alcun modo disprezzabile, perché è un piacere affatto naturale.

Questa rivalutazione del corpo nell’amore ha un’origine “epicurea”, ed era stata già avanzata da Lorenzo Valla con l’esaltazione della “voluttà”. L’attrazione amorosa genera un movimento dell’anima verso l’oggetto del desiderio, e come tutti i movimenti, anche quello amoroso ha un fine, indicato chiaramente nel capitolo 27 del De amore: «amantiumque finem praesertim cupidinis voluptatem» (cap. 5, 1-2, p. 36: «la finalità dell’amore-desiderio degli amanti è il piacere»). Il problema è capire cosa sia questa voluptas, e soprattutto come legittimarla dal punto di vista morale. Sappiamo già da Andrea Capellano che l’amore si completa nell’abbraccio della persona amata, o, senza mezze parole, nel coito.22 Non c’è dubbio che Nifo l’intenda in modo analogo. Ma al problema egli dedica ben quindici capitoli (27-42) – sono i capitoli che Tasso analizzerà nel dialogo Il Nifo ovvero del piacere – per spiegarne la natura e per redimerla dal disprezzo con cui la consideravano i neoplatonici. L’amore/cupido mira alla fruizione (frui) che poi lascia la pace della voluptas, che è una forma di assaporamento o di felicità dovuta all’averla esperimentata e all’essersi uniti alla bellezza desiderata. È, se si vuole, una forma di beatitudine, in cui culmina un’azione che però è fisica o sensuale e non intellettuale, perché la beatitudine conseguente all’attività intellettuale è propria del saggio. In questo modo Nifo introduce nella nozione d’amore un edonismo di natura sensuale e di matrice epicurea.23 Siamo lontani dalla nozione cortese e petrarchesca dell’amore che genera virtù e che guida al bene eterno, un amore che coordina tutte le virtù che si combinano nell’honestum. È un amore molto diverso da quello che prende la forma dell’amicitia o della benevolentia – forme che Nifo esamina dettagliatamente – perché è di natura fisica, e il piacere che produce è risolto tutto nei sensi. Ciò non significa che quest’amore sia del tutto estraneo al discorso morale, anzi Nifo insiste nel mantenere il discorso sull’amore entro la sfera morale, perché il “desiderio” e gli appetiti devono essere regolati da una forma di temperanza contro ogni eccesso vizioso.

I trattati di Nifo sono opera di un filosofo e non di uno scrittore di corte, pertanto il loro discorso è ben più complesso di quanto questi nostri paragrafi non lascino intravedere. Nifo si oppone a Ficino, ma solo fino ad un certo punto, e si rifà ad Aristotele ma fino ad un certo punto perché è un Aristotele letto attraverso i commenti di Averroè e di Alessandro di Afrodisia, testi sui quali Nifo era agguerritissimo, come dimostra nella sua polemica con Pomponazzi sull’immortalità dell’anima. Era inevitabile che nel discorso sull’amore, così legato alla filosofia platonica, Nifo prendesse posizione su vari fronti e con risultati eclettici. Tuttavia a noi interessa rilevare soltanto che la sua interpretazione “sensuale” dell’amore contribuì a riportare questo grande tema rinascimentale sulle strade del mondo dove gli uomini consumano i loro amori. E quanto più si impone il mondo reale, tanto più si indebolisce quello degli ideali, e ciò per noi significa che l’utile avrà il sopravvento sull’honestum.

Sperone Speroni.

Nifo compose il De pulchro e il De amore nello stesso periodo in cui Sperone Speroni stendeva le sue considerazioni sul fenomeno dell’amore, che però furono pubblicate solo un decennio più tardi. Il Dialogo d’amore,24 infatti, venne alla luce nel 1542 all’insaputa dell’autore, ma fu scritto attorno al 1532. Di Speroni abbiamo già rilevato la propensione per il sapere pratico, e quindi non sorprende che anche nel trattare la passione amorosa appaia evidente il suo orientamento “realista”. Com’è tipico dei dialoghi, anche il Dialogo d’amore tende a presentare varie tesi per poter evidenziare quella preferita. In questo caso vengono discusse la tesi neoplatonica – l’amore che ha origini celesti – e la peripatetica – l’amore ha origini sessuali. Speroni non cita mai Ficino, ma è chiaro che le sue teorie siano quelle prese di mira, cosa tra l’altro prevedibile, considerando la sua formazione padovana e pomponazziana. Tuttavia anche lui ammette che la “bellezza” sia la causa dell’amore, ma è una bellezza fisica che i sensi appetiscono, e quest’amore può essere solo degli uomini, i quali, diversamente dagli animali, amano la bellezza. Pretesto del dialogo è la gelosia che Tullia d’Aragona sente per la partenza di Bernardo Tasso, e attorno a questo sentimento viene sviluppata la tesi che l’amore sia una speranza che alimenta il desiderio, come si può vedere dalla gelosia che nel ricordo sublima la bellezza fisica dell’amata e anela a riaverla. È una forma di cupido che vive nella memoria e può darsi solo negli uomini che, diversamente degli animali, sono mossi dalla bellezza. Ma la ragione interviene a controllare questo sentimento e colma la distanza fra gli amanti con la creazione della poesia che rende “immortale” la persona amata. La memoria, dunque, ha un ruolo che non è la plotiniana o ficiniana “reminiscenza” conoscitiva, bensì una forza creativa che non porta l’anima al cielo, ma la contiene nel mondo della storia. Nel dialogo appare spesso la metafora dell’amore come “Centauro”, cioè in parte animale e in parte uomo, quindi un amore sensuale, ma regolato dalla ragione. La tesi ricorda quella di Nifo e che Speroni riprende in varie occasioni, ad esempio, nel secondo discorso In difesa della Canace. Egli non scrive da filosofo come Nifo, nondimeno le sue tesi vanno nella stessa direzione, ossia verso una riabilitazione etica dell’amore sensuale e una demitizzazione dell’amore puramente intellettuale della corrente ficiniana. È quindi un’altra indicazione della direzione in cui si svilupperà il discorso sull’amore e sulla ricerca di una fonte della virtù nel mondo dei sensi.

Benedetto Varchi.

La nostra inchiesta potrebbe continuare e confermerebbe ad ogni passo l’attenzione sempre più sollecita verso l’elemento sensuale nei trattati sull’amore. Prendiamo ad esempio Benedetto Varchi, il quale, attorno alla metà del secolo, ci offre un campione della convergenza/distinzione fra platonismo e aristotelismo in cui si incorre spesso quando si tratta dell’amore. Intanto preme dire che Varchi è consapevole di un principio fondamentale e generale dell’etica, ribadito in un contesto che non è quello amoroso:

la lingua fiorentina ha tutto quello che possono desiderare gli uomini, i quali altro desiderare non possono che o l’utile, o il piacere, o l’onesto. Il piacere le viene dalla numerosità, ciò è dall’armonia e dal numero, oltre la dolcezza delle parole e delle rime. L’onesto e l’utile le vengono da una cosa medesima cioè dall’onestà, con ciò sia cosa che appresso i morali onesto e utile si convertono, perciocché come niuna cosa è utile, la quale ancora onesta non sia, così nulla cosa è onesta la quale ancora non sia utile.25

In questo passo dell’Ercolano si ricordano le tre forme di bene indicate nell’Ethica nicomachea (II, 3), e il principio illustrato da Cicerone circa il rapporto dell’honestum/utile. Parlando più specificamente dell’amore, Varchi distingue un “amore onesto” da un “amore bestiale”, come leggiamo nella settima delle Lezioni sulle Canzoni degli occhi: «L’umano onesto è più perfetto che imperfetto, dilettando prima la parte più perfetta, ciò è l’anima, che la parte più imperfetta, ciò è il corpo. E come il giocondo può, levata l’ultima parte, diventare bestiale, così l’onesto, tolta via pur l’ultima parte, suole divenire angelico»26 (p. 476).

Varchi dedica varie lezioni al tema dell’amore, spesso sotto la forma di letture di testi petrarcheschi, ed è notevole la chiarezza dell’esposizione e della schematizzazione, tanto che si potrebbe riportare per intero la lezione (sfortunatamente giuntaci priva di una seconda parte) Dei sensi (pp. 486-489) sul sonetto Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni per avere un quadro nitido delle teorie dei “cinque amori” di cui parla Marsilio Ficino (dovutamente citato secondo il Commentum al Convivio di Platone, cap. VIII), corrispondenti ai cinque sensi, allineati secondo una precisa gerarchia. Nel complesso è ovvio che Varchi raccomandi l’amore “contemplativo” o platonizzante legato al senso nobile della vista, ma per noi è importante vedere quanto spazio e attenzione riservi ai “sensi” vicini alla terra, e vedere quanto consideri accettabile un amore che, senza essere angelico, attinga almeno il livello dell’amore “civile”, grazie al decoro della temperanza. Insomma le “due Veneri” di cui parla anche Ficino, convivono attorno alla metà del secolo, e in alcuni casi prevale la Venere celeste (ad es., nel Raverta di Betussi), e qualche volta vince la Venere terrestre (ad es., Aretino nel Filosofo), e qualche volta si cerca di capire che il vivere “onesto” non appartiene a nessuna delle due, ma si trova in uno spazio intermedio ai cui estremi non dominano i “demoni buoni” (kalodemon) o i “demoni cattivi” (kakodemon): ossia non la vita assolutamente contemplativa né la vita assolutamente terrestre della pura riproduzione, ma una vita che contemperi le diverse esigenze dell’uomo, e dove al posto dei “demoni” esistono le passioni o moti o affetti che si modificano nel tempo e si intrecciano. La strada percorsa dai molti trattati d’amore nel Cinquecento tende ad incentrarsi su quello spazio medio dove l’unione dell’onesto e dell’utile sembra un compromesso, incapace di rinunciare all’ideale di un amore perfetto e spirituale, ma neppure disposto a rinunciare a quel bello fisico, fonte anch’esso di piacere che può non essere volgare, anzi può assurgere a forme decorosissime di edonismo. La via verso il compromesso significa, da una parte, che l’ideale non è più perseguibile perché troppo distante o che è venuta meno la necessità di perseguirlo, e significa anche che non è accettabile l’estremo opposto. Ma la ricerca di un compromesso significa soprattutto che il problema tende a rimanere “accademico”, cioè a mantenersi ad un livello speculativo e con debolissima incidenza sulla cultura. È il motivo principale per cui i trattati d’amore – quelli presenti nella raccolta di Giuseppe Zonta27 e in numerosissimi altri – stentano a distinguersi fra loro perché sono ripetitivi, autoreferenziali – Il Cortegiano castiglionesco annovera Bembo fra i personaggi, Tullia d’Aragona nel suo Dialogo della infinità d’amore include Varchi –, e ricorrono spesso ai generi squisitamente accademici del “quesito” o del “problema”, e si aggirano sempre attorno agli stessi temi dell’amore visione e dell’amore carnale e del rapporto fra questi due estremi. Il che ci esime dall’indugiare ad esaminarli. Ma bisogna fare almeno due eccezioni che riguardano due personaggi di alto livello culturale: il primo è Francesco Patrizi da Cherso, e il secondo è Torquato Tasso. Entrambi ci portano verso l’ultimo quarto del secolo.

Francesco Patrizi da Cherso.

Di Francesco Patrizi ci interessano due testi. Il primo è un opuscoletto scritto attorno al 1570 e rimasto inedito fino a quando Danilo Aguzzi Barbagli l’ha pubblicato nel 1975. S’intitola Il Delfino overo del bacio,28 dedicato al bacio inteso in modo affatto diverso da come lo intendevano i poeti: non più segno d’amore e di passione, ma mezzo attraverso il quale si trasmette fisicamente l’amore e la passione. La dimostrazione implica una visione originale dell’amore. Patrizi procede secondo le regole del dialogo (i dialoganti sono Delfino e Patrizio, da intendere come l’autore che in questo caso funge da precettore) iniziando a costruire il caso con la constatazione che esistono vari tipi di bacio: fra genitori e figli, fra amici, fra uomo e donna, ma nessuno di questi ha lo stesso valore del “bacio amoroso” il quale ha una dolcezza che gli altri tipi di bacio non conoscono. E bisogna precisare ulteriormente che i baci non sono tutti dello stesso tipo per quel che riguarda la parte del corpo al quale si affigge. Il bacio alle mani è meno “dolce” di quello sulle guance, e questo a sua volta è meno dolce di quello che si dà sulle labbra e arriva al contatto delle lingue, a succhiare le labbra e la lingua dell’amata: questo è il bacio che genera una dolcezza e un piacere intenso che chiamiamo amore. Ancora: il bacio sulla bocca non ha sempre la stessa intensità di piacevolezza se la persona che si bacia non è bella o se il suo fiato è sgradevole o se intervengono altri fattori. Infatti, non basta che la persona sia bella, perché, contrariamente a quanto si sostiene, la bellezza non desta necessariamente amore. Patrizi qui differisce radicalmente dalla nozione platonica che l’amore sia desiderio di bellezza, perché l’esperienza dimostra che le persone belle non sono necessariamente amate da tutti. Perché l’amore nasca è necessario che si desideri, infatti «altra cosa è il piacimento, altro desiderio, altra affettione et altra amore» (p. 145). L’amore – sostiene Patrizi – è un desiderio di incontrare il proprio simile nell’altro. E questo incontro avviene attraverso la trasmissione della propria anima vitale, che inizia dalla luce degli occhi e attraversa i pori della pelle che sono penetrabili al massimo grado nella parte “spugnosa” del corpo, la bocca. Questo incontro produce un piacere intenso in maniera particolarmente dolce. Tale piacere, diverso dal piacimento e dall’affezione, è ciò che chiamiamo amore. Così facendo Patrizi spinge delle nozioni platonico-ficiniane sul versante medico-fisiologico e arriva a spiegare l’amore in termini in cui rimane definitiva la presenza “personale” e della “philautia”, ossia dell’incontro del se stesso in un’altra persona. In altre parole, si ama o si desidera intensamente una persona simile/diversa e non un’idea universale di bellezza; e in questo modo la sensualità individuale è la vera chiave dell’amore e non la bellezza riducibile a formule universali e astratte. Per questa via non solo si riscatta l’edonismo in quanto piacere individuale, ma si pone la base per intendere l’amore in termini della “simpatia” cosmica di matrice ermetica. Ed è quanto ci conferma il secondo saggio di Patrizi.

L’amorosa filosofia 29 del 1577 è un trattato rimasto anch’esso inedito per secoli ma non necessariamente sconosciuto; però, a differenza del Delfino overo del bacio, è rimasto incompiuto, lasciando incerte le conclusioni cui l’autore intendeva pervenire. Si tratta di un dialogo in quattro tempi o altrettanti dialoghi. Protagonista principale è Tarquinia Molza le cui virtù e bellezze vengono descritte in nove orazioni di altrettanti oratori – tutti personaggi illustri, e sono presenti al dialogo perfino Bernardino Telesio e Sperone Speroni –, distribuite nel primo dialogo. Nel secondo e nel terzo la Molza dialoga con Patrizi, al quale espone le sue idee sull’amore, e nel quarto dialogo interviene il marito della Molza, Paolo Porrino, sollevando alcune obiezioni alle tesi di Tarquinia. Il primo dialogo è suddiviso in sezioni recanti per titolo il nome di una musa, e nel complesso esaltano la sapienza di Tarquinia, ma anche la bellezza fisica, per cui in un certo senso costei dovrebbe prendere il posto di Diotima nel Simposio di Platone e di Giovanna d’Aragona nel De pulchro di Nifo, per altro mai citato. Nel secondo dialogo Tarquinia e Patrizio (cioè Patrizi) entrano in argomento e chiariscono che amore è amore (p. 83), sennonché questa identità logica non vale a definire con chiarezza il soggetto, e pertanto deve essere dimostrata. E la si dimostra escludendo che l’amore di cui s’intende parlare sia diverso dalla benevolenza, dalla carità, dalla amicizia e da tante altre “affezioni” simili (p. 88), e si conclude che esistono quattro “maniere” d’amore: il physicon, il singenicon, l’eteraicon e l’eroticon, maniere che in buon volgare significano «naturale, parentesco, compagnevole e venereo» (p. 97). Il terzo dialogo indugia a spiegare la natura dell’amore in generale, e si sofferma sui primi tre e rimanda ad un ulteriore dialogo il chiarimento dell’amore erotico, sicuramente il più complesso perché accomuna gli uomini con le bestie e incorre facilmente in eccessi viziosi. Nell’intestazione del terzo dialogo si legge «Che tutte le specie d’amore nascono dallo amore di se stesso» (p. 99), che cifra l’essenza del dialogo. L’amore, infatti, è in tutte le sue forme una manifestazione della philautia, o dell’amore di se stessi. Anche Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza perché ama se stesso, e l’uomo dovrebbe amare gli altri “come ama se stesso”. Dio ci ha dato di suo le qualità dell’unità e dell’eternità (p. 108), senza le quali non si dà perfezione, e noi viviamo per realizzarle perché in esse noi amiamo noi stessi. Non amiamo Dio in quanto “sommo bene”, ma la carità vuole che lo amiamo con la stessa intensità con cui noi amiamo noi stessi, per cui anche la carità ha origine nella philautia. L’amore è la tensione e il desiderio di unirci ad un nostro simile perché amiamo noi stessi.

Nel quarto dialogo si presentano le obiezioni a questa tesi, e si ricordano molti esempi ricavati dalla storia di rinuncia all’amore di se stessi per amore di un’altra persona, di amici o di re. Purtroppo il dialogo non è completo, e non sappiamo come Patrizi avrebbe trattato l’amore eroticon. Tuttavia ciò che L’amorosa filosofia dice sull’amore di sé non solo riprende le tesi di Equicola (mai citato), ma le porta a conclusioni che spingono a vedere l’amore come una forma suprema di “egoismo” con connotazioni tutt’altro che negative, anzi come una “esaltazione della libertà umana” nella quale sarebbe presente una matrice ermetica.30 Per quel che riguarda la nostra ricerca ci vediamo trasportati in un campo dove l’onestade sembra irrilevante e dove invece sembra dominante la “utilitade” addirittura come cifra della vita e del cosmo, l’utile come amore di se stessi.

Torquato Tasso.

Poiché il discorso sull’amore ci ha portato a parlare del piacere e dei sensi – e siamo ormai in clima di fin de siècle –, è inevitabile soffermarsi su Torquato Tasso. Questi interviene anche sui nostri temi e lo fa come lui solo sapeva fare, ossia con un atteggiamento eclettico, ma associato ad un’originalità ineguagliata, fondendo nozioni ormai stagionate e perfino improduttive, ma nello stesso tempo avviandole in una direzione inedita. I suoi Dialoghi toccano quasi tutti i temi che ci interessano, dal cortigiano e la corte alla gelosia e all’amore, dalla bellezza all’arte e alla retorica, dalla nobiltà all’economia domestica, dall’amicizia alla virtù, e, come vedremo presto, dall’onesto/utile alla virtù: i suoi dialoghi offrono una panoramica preziosa della cultura del tempo discutendone i temi che vi si dibattevano. Tuttavia non è un panorama sempre chiaro: i dialoghi tassiani, fortemente marcati dalla tradizione dialettica di matrice “socratica”, perderebbero vigore se uno dei dialoganti non avesse argomenti degni di confutazione o tanto deboli da non creare un vero dialogo; ma proprio per questo spesso si rimane incerti sulla tesi che l’autore vorrebbe far prevalere. E non si tratta solo della natura del “discorso obliquo”, degli obiter dicta, bensì del fatto che le tesi poste in contrasto sono un riflesso di posizioni vere, presenti in una cultura altamente conflittiva. Si rimpiange l’esposizione diretta dei Montaigne, autore paragonabile al nostro per la varietà tematica nonché per un certo eclettismo e scetticismo. Ma Tasso viveva in una cultura in cui i grandi temi si sviluppavano non con i grandi trattati filosofici, bensì con la “civil conversazione” delle corti e delle accademie, e richiedevano pertanto una particolare retorica adatta ad un pubblico ridotto e selezionato e consapevole dei limiti che all’oratore venivano imposti dai poteri vigenti; pertanto il dialogo appariva come il modo migliore per tenere una via di mezzo e per raccogliere il maggior numero di consensi possibile. Anche per questo i dialoghi tassiani, riflettendo una situazione conflittiva o quanto meno dialetticamente articolata, contribuivano a portarla alla luce e, potenzialmente, a spingerla a superamenti, a trovare uscite dall’impasse in cui era venuta a trovarsi. Non era più una cultura fermamente ancorata alle posizioni platoniche o neoplatoniche né a quelle aristoteliche; era minacciata nella sua fede dalla teologia protestante; e non era più certa sui canoni letterari da adottare. Tasso illumina quella situazione e come uno smeraldo la diffrange in tanti fasci di luce diversa. Ma usciamo dalle considerazioni generiche e atteniamoci al tema che abbiamo fino ad ora seguito, ossia l’amore che ispira tanta letteratura e che impegna tanta filosofia.

Tasso è un poeta d’amore, anzi un grande poeta d’amore che si distingue, e non solo per la voce, dalla fungaia di tanti poeti d’amore del Cinquecento. Certo non è più la poesia quasi misticheggiante di un Bembo, che smaterializza la bellezza dell’amata per riporla nell’iperuranio. Sono passati ormai molti decenni e si è ripetuto molte volte che la «spoglia del mondo» come «augel di bianche piume» spesso «s’arresta nel fango», secondo l’immagine del grande poeta d’amore Giovanni della Casa (son. 48: «Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero»). Il sensualismo della poesia amorosa di Tasso è stato messo in risalto tanto che non occorre neanche ricordarlo; ed è un sensualismo che non sarebbe stato “decoroso” nell’apogeo del petrarchismo cinquecentesco, mentre ormai lo era dopo che all’amore era stato ridato il corpo umano e la dignità dei sensi. Tasso, però fu anche un “teorico” dell’amore e del piacere dei sensi, perché se ne occupò dal punto di vista speculativo nel modo accomodato alla “civile conversazione”, ossia nei dialoghi.

All’amore Tasso dedicò vari dialoghi: alcuni lo affrontano in modo specifico, come ne La Molza e ne Il Cataneo overo le conclusioni amorose, altri invece lo trattano in modo meno diretto, come nel Forestiero Napolitano overo de la gelosia e nel Nifo. Dalla molteplicità degli interventi deriva anche la diversità delle risposte alla grande domanda di cosa sia l’amore. Ciò si deve in parte alla diversità dei tempi in cui furono redati: Il Cataneo è degli ultimi anni della vita di Tasso e fu addirittura pubblicato postumo; La Molza è di vari anni anteriore al Cataneo; il Nifo ebbe varie redazioni; Il Forestiero è anteriore al periodo della detenzione dell’ospedale di Sant’Anna. In parte la molteplicità si deve all’eclettismo o sincretismo tassiano, sincretismo che fu della generazione sua, ma che in lui ebbe risultati traumatici perché sincretismo significava lasciare aperti i problemi o risolverli in modo sempre provvisorio. Un sogno riferito al centro del primo dialogo Il Forno overo de la nobiltà, elenca auctoritates così diverse come Nifo, Pico e Zimara, ed esse danno l’idea di quanto fosse difficile cercare di “concordarle”. Ma a parte le oscillazioni su punti specifici, ciò che interessa maggiormente è l’insistenza sul tema dell’amore. Sappiamo che esso ha una storia robusta articolata in tradizioni diverse. Ma nel secondo Cinquecento si ha il senso che l’eredità di quelle grandi tradizioni stia diventando improduttiva: il petrarchismo va spegnendosi o quanto meno modificandosi in modi da accettare tematiche estranee alla linea petrarchesca e da accogliere voci che magari volgono il decoro petrarchesco in un’espressione di gravitas o in un gioco che tende all’epigrammatico; ma soprattutto si attenua quel che di “platonismo” esisteva nella poesia petrarchesca. Tasso stesso nel suo dialogo La cavalletta overo della poesia toscana mostra consapevolezza di questi mutamenti. Anche l’intensificarsi delle discussioni dimostra paradossalmente l’indebolimento del tema: esse mirano a presentare la sagacia dialogica dei dialoganti a corte più che a conquistare nuove nozioni che risolvano finalmente il problema o mistero dell’amore. Si capisce che l’insistenza su un tema non più vitale sia dovuta al fatto che non si vede cosa possa rimpiazzarlo: l’amore aveva risolto o impostato tanti problemi morali e filosofici che non era facile affrontarli ormai con strumenti fiacchi. Una cosa sembra sempre più evidente: l’amore “spiritualizzato” non era riuscito a far tacere l’amore fisico e non era giusto né produttivo parteggiare per la vittoria del primo sul secondo. È anche evidente che il secondo ha la piena legittimazione non tanto nell’idea della riproduzione, ma nella pienezza della natura umana che cerca il diletto carnale senza per questo essere declassato al livello “bestiale”. La ricerca svolta fino a questo punto mette in luce una tendenza a considerare l’amore fisico non come un gradino verso la conoscenza del divino, ma come uno stimolo a conoscere la natura umana, quindi dei suoi sensi e delle sue passioni. Emerge sempre più prepotente una tendenza naturalistica, che magari avrà la sua formulazione più organica in pensatori quali Bernardino Telesio, per il quale l’amore fisico è un’operazione di autoconservazione e il piacere e i sensi e la virtù vanno visti in termini naturali o fisici. Insomma si può dire che in questa nuova stagione si tenda a riscattare l’individuo, irripetibile e autonomo, e con lui il suo amore individuale da un tipo di amore che la tradizione platonica sacrifica ad un universale “amore nel divino”, ma anche a distinguerlo da altre forme che la tradizione aristotelica livellava nel concetto di “beatitudine” che, comunque, rimaneva sempre nella sfera intellettuale, diversa e distante dal bene fisico. L’esaurimento di una tradizione e i suoi sforzi di sopravvivenza aiutano a spiegare la natura delle discussioni sottilissime su punti e questioni d’amore che prendevano sempre più un colore da reperto archeologico. È il colore che prende anche il nostro honestum/utile la cui vitalità è sempre più dubbia: nel momento in cui si elimina l’elemento trascendentale nell’amore e nelle virtù che esso genera o che accompagna, il rapporto onesto/utile viene squilibrato o addirittura sciolto, l’onesto assumerà un nuovo significato e l’utile s’imporrà come legittimo egoismo.

Per non disperderci vediamo soltanto due dialoghi tassiani: il primo perché verte direttamente sull’amore, e il secondo perché contestualizza il discorso sull’amore in modo da risultare centrale per il nostro argomento. Vediamo, dunque, con La Molza overo de l’amore, che prende il nome non dal poeta Francesco Maria Molza, ma dalla moglie Tarquinia che dialoga nella Filosofia amorosa di Francesco Patrizi, a riprova del già notato carattere autoreferenziale dei trattati d’amore cinquecenteschi e a conferma del fatto che il pubblico al quale sono destinati sia quello cortigiano. Il Molza è abbastanza lineare. Vi si mettono a confronto le due nozioni dell’amore allora prevalenti: quella platonica vuole che l’amore sia “movimento dell’anima verso l’oggetto del desiderio”, mentre la linea aristotelica vuole che sia “quiete”. La definizione peripatetica è la meno ovvia, in quanto gli amanti vivono spesso agitati e tormentati, e per questo essa richiede una spiegazione. E la si dà ex contrariis, cioè esaminando l’odio che è il contrario dell’amore. L’odio è diretto alle cose che ci impediscono di ottenere ciò che desideriamo, e questo già dice che l’amore è mancanza d’impedimento e quindi anche di movimento, visto che questo deve sempre vincere o coprire una mancanza. Quando il desiderio si realizza, allora si vuole mantenere la gioia del possesso senza più alcun moto: come il fuoco che, raggiunta la sua sfera, si ferma in essa e arde sempre alimentato dalla sua stessa natura libera da impedimenti. Quest’osservazione porta a voler stabilire il regno dell’amore: è la mente oppure il cuore? E qui rispunta l’idea aristotelica della felicità, che è uno stato raggiunto dall’intelletto nella contemplazione della verità o dei principi universali. Ma per Tasso la risposta è più complessa perché non tutti i piaceri sono della stessa natura. Intanto bisogna ammettere che l’amore può essere causa di azioni viziose e di azioni virtuose. Fra queste ultime si distingue l’amore per il sommo bene, ed è un amore che prende il nome di “carità”. Le virtù teologali lo ispirano e “l’amor di caritate” lo realizza nel riposo o quiete della visione suprema: una volta raggiunto questo risultato non sono più necessarie le virtù della fede e della speranza. L’amore «si volge a le cose create, produce la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza, la liberalità, la mansuetudine, la modestia e l’altre, le quali sono in guisa congiunte che l’una non può star senza l’altra, percioché in ogni ordine c’è una communanza e quasi una congiunzione, la quale discende da la unità ne la moltitudine, e ogni moltitudine si riduce ne l’unità».31 Questo secondo amore – da intendere come «raggiungimento o realizzazione del desiderio» e quindi come «pace o quiete» che si raggiunge quando amore «è diventato signore del suo regno» (p. 818) – è diverso dalla carità, perché ha origine nel “concupiscibile”, ma una volta realizzato, grazie alle virtù “morali” o cardinali, ha la sua reggia nel cuore.

Nel complesso tutto sembra rientrare nella tradizione: l’amore umano rispetto a quello divino, l’amore come ordine e legato alle virtù, l’amore realizzato come stato di felicità. Ma nei dettagli alcune cose sono diverse. Infatti, se l’accettazione della linea aristotelica e non di quella platonica sembra ovvia, non è detto che si possa parlare di accettazione integrale. È vero che l’amore “è quiete” come vuole Aristotele, ma non è detto che sia “piacere” o “gaudium”. Nell’amore tassiano è presente l’interpretazione di Nifo, precisamente del capitolo 32 del De amore,32 e questa “gioia” dà anche all’amore tassiano una versione “edonistica” non lontana dalla quiete di Epicuro. È chiaramente una via che riscatta l’amore fisico dal ripudio ficiniano, e si apre alla celebrazione dei sensi.

La menzione di Nifo ci porta al secondo dialogo, di gran lunga più complesso della Molza. Parliamo del Gonzaga o vero del piacere onesto del 1582, in seguito modificato in modo che si riflette anche nel nuovo titolo, Nifo overo del piacere del 1585.33 Dal primo titolo vediamo che Tasso combina l’onesto e il piacere, e l’apparente ossimoro richiama subito l’attenzione. Nel titolo della seconda versione Nifo viene annunciato come personaggio del dialogo, e si omette il concetto di “onesto” mentre campeggia solo quello del “piacere”. Il fatto strano del dialogo è che verta in grandissima parte sull’onestade e conceda poco spazio all’amore e al piacere amoroso. Sembra un’anomalia, ma Tasso è autore troppo calcolato per non dirci in questo modo che l’anomalia deve essere spiegata, e forse essa è parte integrante, necessaria, nella dimostrazione delle tesi del dialogo. Non è solo una nostra impressione: le varie interpretazioni e i ripetuti studi del dialogo34 sono una prova della sua complessità, e per il nostro argomento generale presenta un intreccio di temi che ne fanno quasi un punto d’arrivo.

Per non complicare il discorso, ci atteniamo alla seconda redazione del dialogo, non perché una versione equivalga all’altra, ma perché altrimenti dovremmo aggirare una serie di obiezioni la cui soluzione, tutto sommato, avrebbe poco valore per il nostro argomento. La scena del dialogo è il giardino di un nobile napoletano, ed è una scelta che, suscitando l’ammirazione dei due dialoganti, giustificherà l’introduzione del tema del piacere. I dialoganti sono Cesare Gonzaga e il filosofo Nifo. Il primo è un nobile legato all’Imperatore, e il secondo è un filosofo: il primo sarà uomo di parte, mentre il secondo sarà partigiano della verità, la quale, come sempre, si raggiunge con ragionamenti faticosi. Il loro dialogo verte su due orazioni rivolte da due consiglieri al principe Sanseverino su un argomento spinosissimo: deve accettare di essere ambasciatore della città di Napoli presso l’imperatore per perorare che nella città partenopea non s’instauri l’Inquisizione voluta dal viceré Don Pedro, oppure deve rifiutare un incarico così difficile? Le difficoltà della missione sono esposte in due modi diversi e opposti. Il primo consigliere è Vincenzo Martelli, fiorentino e cortigiano del principe Sanseverino; il secondo è Bernardo Tasso, di Bergamo e padre di Torquato e segretario del principe. La città d’origine è importante perché da essa i due consiglieri ricavano elementi di credibilità, in quanto l’ethos dell’oratore è una parte importante nella retorica. Non solo: il primo viene da una città di tradizioni repubblicane, Firenze, e il secondo viene da una città senza una storia altrettanto gloriosa, ma ora opera nel regno Napoli che ha invece una grande tradizione “monarchica”. È una differenza che si presterà a lunghe discussioni sul potere politico, su quale dei due sia migliore, ma anche sulla legittimità o meno dell’uno o dell’altro potere. A queste se ne aggiungono altre: se l’obbligo di lealtà al viceré sia pari o superiore o inferiore a quello verso la città. Infine si discute del tornaconto o utile che può derivare da un’ambasciata del genere, e capire se l’Inquisizione sia un bene per la città. Sono tutti argomenti da considerare, perché ad essi si legano le decisioni prese riguardo all’accettare o meno l’incarico dell’ambasciata. Si aggiunga ancora un problema, cioè il ruolo della retorica o del consigliere in questo processo: cosa persuade, in fondo, l’evidenza del vero o la forza della parola? Comunque i due oratori consigliano cose diverse: per il Martelli il principe deve rifiutare perché rischia di mettersi contro l’imperatore e di inimicarsi perfino il popolo napoletano, senza dire che l’ambasceria gli risulterà dispendiosissima. Bernardo Tasso, invece, consiglia di accettare l’incarico, perché se riesce positivamente sarà onorato dalla città napoletana, e se non riesce sarà onorato comunque per il semplice fatto di aver difeso la città dal male dell’Inquisizione che a Napoli non è affatto necessaria, visto che l’eresia non vi ha alcun potere effettivo e non rappresenta alcun pericolo. Nella sua orazione Bernardo Tasso sottolinea ciò che lo distingue dal Martelli: questi consiglierebbe la cupidigia contro l’onestà, e la simulazione contro la verità (p. 246); mentre lui, Bernardo, si attiene all’onesto e al vero; comunque lascia che “la prudenza del principe” decida fra i due consigli.

Come si può immaginare i temi che vi si accumulano sono moltissimi, senza dire degli elementi autobiografici, che non riguardano solo quelli legati alla figura del padre (la missione presso l’ambasciatore costò l’esilio a Bernardo Tasso che si recò in Francia dove si portò dietro anche il giovanissimo Torquato), ma anche il tema dell’Inquisizione che, come sappiamo, era molto sospettosa nei riguardi dell’autore ed era indirettamente responsabile della sua incarcerazione. Temi che, tra l’altro, hanno portato nell’interpretazione del saggio i sospetti del conformismo politico e religioso e della simulazione, certamente molto diffusa in quel torno di tempo. Tra l’altro anche le due orazioni con due consigli diversi hanno fatto pensare alle “due morali”, una della religione e l’altra della politica che ormai da vari decenni e in moltissimi casi erano considerate addirittura incompatibili.

La prima reazione di Nifo alle due orazioni è di “diletto” per l’eloquenza di Tasso, e anche Cesare Gonzaga ne riconosce i pregi. Comunque entrambi sono d’accordo sul potere delle parole che incantano, ma ciò che veramente persuade non sono le parole bensì la verità, la quale, però, “in questo genere di cose è molto incerta”. Sembra una constatazione del tutto casuale, ma, di fatto, tocca un problema di proporzioni epocali perché riguarda le vicende della retorica che nel secondo Cinquecento attraversa una crisi profonda. Non c’è dubbio, infatti, che la retorica “deliberativa”, che dibatte i grandi temi civili e politici, sia un ricordo del passato in una cultura in cui la libertà politica o le istituzioni repubblicane sono tramontate. La retorica aveva perso il suo contatto con la storia attuale, e pertanto sia l’inventio, o la ricerca dei materiali con cui argomentare, sia la dispositio, ovvero la maniera di ordinare quei materiali, erano trascurati, e la retorica si riduceva all’elocutio o all’aspetto “delle parole” che creano diletto. Alcuni sostengono che in questa crisi sia da vedere uno dei motivi principali dell’avvento della cultura barocca. Non possiamo indugiare su tale amplissimo problema, ma osserviamo soltanto che l’impoverimento della retorica indebolì a sua volta il discorso sulle virtù e di conseguenza sulla ricerca morale, che, com’è risaputo, nel Medioevo e nella civiltà umanistica aveva profondi legami con lo studio della retorica. Tuttavia l’attenzione alla forza della retorica non è gratuita, perché alla fine la scelta fra “due onesti” posta dal dialogo avrà una base retorica e non logica, quindi troverà una soluzione più nelle emozioni che nei concetti.

Infatti, per noi il problema maggiore è stabilire cosa sia l’onesto e l’utile, e quale sia il rapporto fra i due, e quindi capire se e come quest’aspetto si colleghi a quello principale del “piacere” annunciato nel titolo, e quindi come si colleghi al tema dell’amore. Per arrivare al punto bisogna attenersi al modo in cui le due orazioni impostano il problema, e seguirne quindi lo sviluppo sfrondando tutti i peripli argomentativi che il dialogo impone, specialmente data la diversità di preparazione e d’interesse fra i due dialoganti: uno filosofo e l’altro un aristocratico ancorato a forti opinioni di classe. Allora appare chiaro che si mettono a fronte due tipi di “onesto” di valore diverso, per cui il vero problema è stabilire quale dei due sia superiore e quindi quale sia da perseguire. Si pone così l’alternativa dei “due onesti” e dei “due utili” mostrata da Cicerone nel De officiis. Ricordiamo che nel terzo libro della “Bibbia dell’honestum”, ossia il De officiis, si presentano molti casi controversi in cui si pone la scelta fra due honesta. Il problema è esemplificato nella ben nota vicenda di Attilio Regolo. Questi ha giurato ai Cartaginesi che andrà a Roma per ottenere il rilascio dei prigionieri in cambio della pace; se non riuscirà nell’ambasciata, dovrà tornare prigioniero a Cartagine e accettare le conseguenze del suo fallimento, la morte. Attilio torna a Roma e convince i Romani a non liberare i prigionieri, e così facendo si condanna alla morte. Ha scelto fra due beni, la propria vita e quello della patria, e bisogna aggiungere che poteva infrangere un giuramento che, fatto ad un nemico, non era vincolante; ma Attilio Regolo considera onestà suprema il rispettare la propria parola, resa sacra dal giuramento. Attilio Regolo poteva essere più utile ai Romani conservandosi in vita, invece ritiene di esserlo ancora di più tornando fra i nemici e mostrando ad essi di che tempra morale siano fatti i Romani. Ricordiamo questo episodio perché viene riportato nel dialogo tassiano, e la fonte serve a restituirgli il valore che Cicerone gli dava.35 Dilemmi di questa natura non si possono risolvere con la logica, ma solo con un’azione ispirata dalla psicologia oppure da un sapere superiore e senza regole, perché è regola essa stessa, e si chiama “prudenza” o “discrezione”. In ogni modo il dilemma serve a ricordare che la nozione di bene e di onesto non si presenta sempre in modo univoco, e il mondo della morale può essere multiforme, e niente lo dimostrava meglio del “probabilismo” o della “casistica” che cominciò a diffondersi nel periodo successivo al Concilio di Trento. Comunque non sembra che queste mode abbiano avuto un’eco nel dialogo tassiano: semmai si può sostenere che la disputa fra “i due onesti” sia un pretesto per riabilitare la decisione di Bernardo Tasso, il quale, proprio per il consiglio che diede al principe Sanseverino, fu costretto a seguirlo in esilio.

Comunque stiano le cose, i due onesti in lizza hanno una singolarità che non ricorre in altri casi: «ne l’orazioni in genere deliberativo, ne le quali sogliono trattarsi le materie di stato, l’utile è il fine e quello per lo quale gli uomini di stato sogliono muoversi» (p. 256). E questa singolarità – di aura machiavelliana indicata da Cesare Gonzaga – rende difficile perseguire l’onesto, dal momento che il fine primario è l’utile. Inoltre bisogna tener sempre presente che chi dialoga deve decidere quale dei due consiglieri offra il consiglio migliore: si tratta quindi di valutare non tanto o non solo un’azione politica, quanto il rapporto della retorica rispetto alla politica, e stabilire quale dei due consiglieri potrà riuscire più persuasivo. Il rispettivo successo dipenderà dagli argomenti/valori che presentano, sebbene in ultima analisi e in situazioni concrete deciderà “la prudenza” di chi deve agire. I consiglieri devono conoscere l’animo della persona che consigliano, e il loro compito è consigliare ciò che ad essi torni utile e onorevole. E poiché l’onorevole si misura in rapporto all’onesto e all’utile, i due dialoganti cercano di stabilire in che cosa consista l’onesto e cosa sia più onesto, e cosa sia utile e cosa sia più utile. Abbiamo già detto che l’alternativa si pone fra la lealtà al re o alla patria, fra l’utile personale, l’utile per la città e l’utile per l’impero. Il dialogo procede secondo il metodo socratico e per questo è impossibile seguirne tutte le affermazioni e le repliche, molte delle quali sono prevedibili, nonostante le sottigliezze e nonostante si tratti di politica avente per fine l’utile, per cui il discorso verte “sul mezzo” per raggiungerlo. L’onesto è ciò che si cerca per se stesso, mentre l’utile, che non si può disgiungere dall’onesto, può contrapporsi ad esso se diventa egoistico. Ma alle considerazioni che possiamo immaginare, i dialoganti aggiungono un elemento che in ultima analisi può essere decisivo nel dirimere i dilemmi: è il piacere. In questo modo, verso la fine del dialogo, appare un elemento indicato nel titolo e toccato solo fugacemente quando si parla dello stile dell’orazione. Non è facile dire cosa sia il piacere perché non è il “buono” né la felicità, come ritengono alcune scuole filosofiche. Né si può dire che il piacere di placare la sete (che colma una mancanza e che riporta alla normalità la nostra natura) sia uguale al piacere di sentire un bel discorso o di essere onorato, perché ciò non crea alcun “movimento” verso un oggetto piacevole. E, progredendo con il metodo socratico, si perviene alla conclusione che non si cercherebbe né l’onore né il piacere se essi non producessero piacere, da intendere, con Aristotele, come «riposo nel raggiungimento dell’oggetto desiderato senza più alcun impedimento». Ma il piacere non è un’essenza, bensì una forma: «da l’operazione non impedita nasce il piacere che la fa perfetta, il quale è la forma dell’operazione non come abito intrinseco ch’appartenga alla sua essenza, ma come forma, la quale sopraggiunge di fuori, e come suo fine» (p. 295). Detto in parole più semplici, il piacere non sono le cose fatte bene, ma il farle bene. Anche l’azione onesta, dunque, è un piacere, mentre non lo è l’amore che nasce dal concupiscibile, ossia l’amore della bellezza fisica, ma lo è quando la ragione interviene a renderlo “perfetto”, cioè a “riposare nel bello”; tuttavia i dialoganti per il momento non approfondiscono l’argomento dell’amore sensuale. È quanto si deduce dalla serie di domande e risposte che verso la conclusione del dialogo vertono specificamente sul piacere. E si capisce allora che in questo modo il bene che motiva l’azione e che Aristotele aveva suddiviso in tre specie – il buono o l’onesto, l’utile e il dilettevole – vengano unificati e identificati in un solo “fine dell’azione politica” che se è onesta è anche utile e piacevole. Non sfuggirà il fatto che un’interpretazione del genere conferisce una notevolissima dose di “edonismo” all’etica con la rivalutazione dei “sensi” ai livelli più alti, perché il piacere non solo si “intende” ma anche si “sente”. Naturalmente anche per i piaceri esistono gradazioni, perché ci sono i piaceri che rispondono alle potenze conoscitive e piaceri che sono sollecitati dalle potenze appetitive: i primi normalmente sono più semplici, perché conoscono un minor numero di impedimenti, mentre quelli appetitivi devono sfidare varie difficoltà spesso anche dolorose. Ma soprattutto bisogna ricordare in conclusione che le circostanze della vita non offrono situazioni di sommo bene in cui è possibile realizzare l’onesto e l’utile con piacere perfetto: questo è desiderabile, ma raramente realizzabile, e spesso si cerca di realizzarlo in modo erroneo, identificando il fine dell’azione nell’utile o perseguendo il piacere identificandolo con l’onore. I tre fini vanno bene insieme, ma bisogna che si accordino in modo perfetto. Succede spesso, infatti, che la ricerca dell’onesto costi grandi sacrifici e la rinuncia al piacere o alla possibilità di portare a compimento un’azione considerata perfetta. Spesso le persone magnanime perseguono l’onesto, ciò che è giusto e bello, ma questo ormai prende un nome diverso che anche Tasso più tardi chiamerà «la virtù eroica». La disparità dei consigli di Vincenzo Martelli e di Bernardo Tasso non impone una linea d’azione per il principe Sanseverino perché questi avrà per guida la prudenza. Esistono due fonti per nutrire le azioni umane, il sapere e il conveniente: entrambe sono chiamate in causa per una decisione tanto grave, perché la natura umana e le circostanze non sono mai tanto nette; ma il consiglio finale di Nifo è che il sapere venga sfruttato per primo: dopo tutto l’azione verrà decisa dalla prudenza che si nutre del sapere. Se l’azione che segue porta onore, porta sicuramente piacere perché la scelta nel dilemma ha posto in primo piano il valore più alto, che è l’onesto.

Susciterà perplessità la nostra inclusione di un dialogo tanto complesso nel filone tematico dell’amore, visto che il tema viene appena sfiorato. Ma il contesto in cui viene inserito dovrebbe rimuovere ogni riserva. Il tema generale del dialogo è il piacere, e questo coinvolge sia l’onesto che l’amore, sia la retorica che il piacere. L’amore è considerato anch’esso come piacere e non più come una conquista dell’iperuranio, e questo piacere pone l’onesto e l’amore e l’onore sullo stesso piano che è l’edonismo, il vero motore e fine dell’agire umano, sia esso intellettuale o fisico. È un edonismo di qualità simile a quello visto in Pontano in quanto il labor dell’onestade si gusta retrospettivamente come memoria dolce. E il fatto che Tasso incornici il tema nel contesto di duo honesta conferisce a ciascuno dei due un valore relativo che lascia la scelta proprio al piacere, alla pulsione personale verso un bene o l’altro. Il piacere amoroso come assenza di movimento, quindi come appagamento dei sensi e della mente, ha una vena epicurea, un deciso modo di intendere l’amore in termini puramente sensuali.

La conquista o, meglio, la constatazione generale del dialogo dipende da una visione ormai minata da una forte dose di relativismo, ma ancora alimentata da un’illusione di possibili perfezioni: nella vita pratica l’onesto e l’utile raramente si coniugano, perché l’onesto non si presenta in modi netti e sempre e in tutte le circostanze; il piacere è anch’esso un criterio difficile da definire teoricamente, ma ancora più difficile da realizzare. Il fatto che il Nifo prenda per spunto del discorso un caso concreto, storico, offre un vantaggio grandissimo rispetto a tante discussioni e trattati che rimangono astratti in modo che tutto possa risolversi nell’ambito del discorso, mentre la vicenda di Bernardo Tasso, così viva nella memoria del figlio, fa capire quanto sia difficile e drammatico affrontare con decisione e chiarezza una situazione dilemmatica, e fa capire che le controversie che l’intelletto non può risolvere, trovano una soluzione psicologica, verace in quanto personale, ma relativa in quanto è tanto valida quanto una decisione che prenda una via opposta. L’onesto, che offriva un parametro di comportamento civile e saggio, è diventato instabile, e il suo tramonto fa sì che desti meraviglia un’azione come quella di Attilio Regolo e che non si esiti a definirla “eroica”, tanto è fuori dalla norma. E Tasso, come vedremo, illustrerà questa virtù eroica di cui farà tesoro la cultura barocca. Anche l’amore, che veniva considerato il motore primo di conoscenza e dell’ascesa al divino, trova un posto meno nobile, ma ugualmente legittimo e certamente più potente nella sfera dei sensi. Del resto la lirica, che era il regno privilegiato del discorso amoroso, subisce negli ultimi decenni del secolo una notevole svolta, abbandonando il formato “canzoniere” che, in quanto ricostruzione di una quête spirituale, era la più adatta ad indicare la forza “conoscitiva” dell’amore. Una volta offuscato questo traguardo, sorgono alcune avanguardie liriche rappresentate dai Rinaldi e dai Casoni, e queste, orientate da quêtes diverse, preparano il terreno per La lira di Marino, dove lo schema “canzoniere” viene completamente superato e rimane invece, e forte, la vitalità del sensualismo tassiano.

Non vorremmo lasciare l’impressione che i Patrizi e i Tasso abbiano superato gli argini del ritegno e che un’alluvione di sensualismo copra ormai d’oblio la vecchia maniera bembiana o ficiniana di concepire l’amore: è l’impressione che inevitabilmente si crea quando si rileva e si valorizza un filone tematico, e se gli si crea un deserto attorno si finisce per mettere in risalto la sua importanza a scapito di ogni altra presenza, ma si perde anche la misura della sua innovazione. Il filone sensualistico si imponeva anche perché i temi platonizzanti si indebolivano, logorati da una lunga tradizione che gli eventi rendevano sempre meno attuale. Lo prova il sorgere prepotente della poesia spirituale che nel secondo Cinquecento tende ad incanalare il tema amoroso su percorsi misticheggianti o semplicemente intimisti (si ricordino poeti come Giovanni Del Bene, Giuliano Goselini, Matteo Fiamma e infiniti altri),36 certamente più accetti alla spiritualità controriformista, e che se anche paiono più vicini all’etica dell’onestade, di fatto la vuotano, perché la sottraggono alla vita civile. Un altro sintomo di crisi è l’affermarsi di una moda che possiamo chiamare dell’autocommento, consistente nell’allegare un commento alle proprie rime – lo troviamo in poeti d’amore come Giuliano Goselini o Celso Cittadini o Ottaviano Favagrossa, e in poeti spirituali come Matteo Fiamma, ed è una moda che culminerà in costruzioni monumentali, come la secentesca Sirenide di Paolo Regio. Un commento aggiunto ai propri versi sembra quasi un segno di sfiducia verso la lingua poetica, giudicandola incapace di dire im modo chiaro le verità dell’anima: sfiducia verso una lingua la cui aspirazione somma era stata quella di far coincidere parole e cose e che a tal fine aveva puntato su un’icasticità la più vicina possibile alla pittura, alla rappresentazione simbolica, all’ideografia. Ora questa lingua bisognosa di un sussidio espressivo dimostrava che cuore e ragione non procedevano allo stesso passo, e nascevano così quelle due anime che, come vedremo, contribuiranno a creare la meraviglia. Solo i sensi e la poesia sensuale non richiedevano interventi per spiegarne possibili significati reconditi.

Il principe.

L’onestade aveva avuto un sostegno fondamentale nella figura del principe, rappresentante e guida della società, ma anche rifulgente modello di morale. Il principe era stato tradizionalmente lo specchio dei valori morali, e gli specula regis medievali, costruiti su questa metafora, erano considerati manuali di etica, punti di riferimento per illustrare le virtù. L’Umanesimo accolse tale tradizione assorbendola nel suo ideale pedagogico (la virtù si “insegna”), che vedeva nell’educazione del principe uno dei ruoli fondamentali di chi conosceva la storia e l’animo umano attraverso gli studia humanitatis, e riponeva nella virtuosa guida del principe il requisito primario della felicità del regno. Il connubio tra morale e politica era in gran parte sostenuto da questo compito, indipendentemente dalla classificazione aristotelica che associava la morale alla politica e all’economia. Per altro era evidente che la politica, in quanto arena della vita pubblica, fosse il campo in cui le virtù venivano messe costantemente alla prova e nessuno si sottraeva allo scrutinio di tutto il popolo. Inoltre non bisogna dimenticare che il principe era il custode della justitia, virtù cardinale dell’honestum sulla quale si reggono le società. Insomma, la centralità e la visibilità del principe nel campo dell’etica sono fondamentali sia nella cultura medievale sia in quella umanistica. E si mantengono tali fino a quando, proprio alle soglie del secolo, quel ruolo e quell’immagine vengono completamente obliterati e sconvolti in modo drammatico. Non è neppure il caso di ricordare che Il Principe di Machiavelli fu il responsabile maggiore di questa rivoluzione da cui nasceva un principe dotato di una virtù particolare, sconosciuta sia al sistema ciceroniano sia a quello aristotelico e cristiano, e che tutt’al più aveva qualche affinità con la “prudenza”, e comunque, anche in questo caso, aveva poco in comune con la phronesis o con la prudentia cristiana. Questo nuovo principe ebbe la forza di sciogliere il tradizionale connubio di politica e virtù, e di dare alla “prudenza” una connotazione inedita ma altrettanto potente da orientare la cultura del secolo. La tradizione aveva dato una grandissima importanza alla figura del principe non per un semplice atto di deferenza o di calcolo, ma perché la sua buona reggenza garantiva un vivere felice per i governati. Inoltre garantiva implicitamente la possibilità che ogni persona virtuosa potesse governare: infatti, non era mai stato detto che per reggere uno stato fossero necessarie doti specifiche oltre alle virtù o che fosse necessaria una particolare investitura divina. Ora tutto andava sottosopra: non si governa bene se si è virtuosi ma solo se si sa regnare, e a questo fine bisogna avere quella virtù particolare di decisione e di efficienza e quella particolare “visione” che il governare richiede. Machiavelli non condannava le virtù “cardinali” o aristoteliche nel principe – anzi le ammetteva e le consigliava, particolarmente la giustizia, la magnificenza e la liberalità – ma non le considerava indispensabili per governare, anche se giovavano moltissimo nell’esercizio del governo. Insomma, la “morale” tradizionale delle virtù, veniva completamente separata dalla politica. Una constatazione di questa portata non lascia dubbi: si chiude un’epoca e viene tolta all’onestade una delle sue colonne portanti, creando un profondo squilibrio in tutto un assetto culturale, con il risultato che l’onestade avrà un ruolo limitato nella vita civile; inoltre il criterio su cui si fonda la nuova “virtù” del principe favorirà la rapida espansione della “utilitade” non più controllata dall’honestum.

La constatazione appena fatta ci impone un cambio di rotta. Fino ad ora abbiamo seguito un criterio espositivo a “telescopio rovesciato”, seguendo tematiche che finiscono per esaurirsi. L’innovazione del Principe mette in moto una serie di fenomeni che nel Cinquecento hanno una storia non di tramonto o di esaurimento, bensì di crescita e di espansione, per cui il telescopio d’ora in poi sarà orientato nel senso normale. D’ora in poi toccheremo filoni tematici la cui evoluzione produce assetti culturali nuovi e che fanno prevedere cosa accadrà una volta che l’honestum/utile tradizionale abbia lasciato un vuoto tramontando definitivamente. Anche per questo motivo abbiamo deciso di lasciare per il ultimo il filone tematico del De principe.

Agostino Nifo.

Il principe non è la sola opera di Machiavelli e non si ricostruisce il suo pensiero soffermandosi soltanto su di essa. Tuttavia è certamente l’opera che più di tutte le altre sue sorprese il mondo per la novità e il coraggio delle affermazioni, ed è rimasta un inesauribile oggetto d’interpretazioni e di discussioni, di cui qui, ovviamente, non possiamo occuparci. Ci soffermiamo invece su un aspetto fondamentale per il nostro discorso, in quanto Machiavelli apre una via per sostituire l’onesto e nello stesso tempo per mantenerlo in modo modificato. Per affrontare meglio questo tema, vediamolo dalla prospettiva di un contemporaneo il quale forse plagia Machiavelli o forse lo riscrive, e comunque riflette il pensiero convenzionale sulla figura del principe nel momento in cui apparve il trattato machiavelliano. Intendiamo parlare di Agostino Nifo.

Agostino Nifo nell’arco di pochi anni, durante la sua residenza pisana – tra il 1520 e il 1522 – scrisse e stampò tre trattati sulla figura del regnante e sui problemi concernenti il governare. Il primo è il De his quae ab optimis principibus agenda sunt; il secondo è il De regnandi peritia; il terzo è il De rege et tyranno.37 Ricordiamo che Il principe di Machiavelli, scritto nel 1513, fu pubblicato solo nel 1532, e poiché sono ovvie alcune similarità fra le opere di Nifo e Il principe, si è diffusa, fin dall’Ottocento, la nozione che questi abbia plagiato l’opera del segretario fiorentino. La lunga disputa che ne è seguita, con una ridda di proposte – fra le quali non è mancata neppure l’accusa sia stato Machiavelli a plagiare Nifo –, si è finalmente composta, e oggi tutt’al più si concede che Nifo abbia inteso “riscrivere” alcune parti del Principe, e tale riscrittura dovrebbe spiegare anche le similarità fra le due opere.38 Ma il significato di quella riscrittura sarebbe polemico, e quindi lo si dovrebbe considerare come uno dei primissimi episodi del vasto fenomeno dell’antimachiavellismo che animò la riflessione sulla politica fino alle soglie del Settecento.

Il ripetuto intervento di Nifo potrebbe avere spiegazioni diverse, ma la motivazione è costante: indicare le qualità necessarie per il regnante nello svolgere il suo ruolo, e nello stesso tempo indicare quale tipo di governo sia il migliore. E già al secondo capitolo del primo opuscolo si pone il tema: «Quod non eaedem principibus et privatis viris virtutes actionesque insint», (Naudé, p. 93: «Che nel principe e nei cittadini privati non si diano le stesse virtù e azioni»). Le virtù sono quelle di sempre, a cominciare dalla prudentia, intesa come sano giudizio con cui perseguire il bene, «recta ratione bona prosequi»; tuttavia il loro valore è maggiore nei principi. Se il principe non possiede questa virtù della prudenza non può governare: «nisi ipse princeps prudentia praeditus fuerit, nec gubernare nec regere subditos populos recte poterit» (p. 97: «e se lo stesso principe non sia dotato di prudenza, non potrà né reggere né governare giustamente i suoi sudditi»). Non basta avere le virtù della prudenza e della giustizia per governare: bisogna che il principe “praestet” o superi tutti i suoi sudditi nell’esercitarle, in modo da essere onorato da loro: «Subditis populis praestare debet, non solum, ut vir bonus sit, bene, beateque vivat, sed etiam ab eis honoretur tamquam eis melior et dignitate prior» (p. 97: «Deve essere superiore ai suoi sudditi non solo come persona buona che viva bene e felicemente, ma anche che venga onorato da quelli in quanto migliore di loro e primo per dignità»). L’illustrazione di queste virtù viene riepilogata nelle parole conclusive: «Agenda igitur a vobis caeterisque optimis principibus, Heroes magnanimi, honesta, iusta, modesta, pia, religiosa, et quaecumque prudentiam, innocentiam, clementiam, facilitatem, mansuetudinem, liberalitatem, magnificentiam, magnanimitatem ac temperantiam prae se ferunt, quibus si litterae, musica, gymnica ac pictura ipsa coniunctae fuerint, divinam maiestatem repraesentabunt» (p. 147: «Voi, dunque, e gli altri ottimi principi, eroi magnanimi, dovete fare le cose oneste, giuste, moderate, pie, religiose e tutte quelle che si portano davanti la prudenza, l’innocenza, la clemenza, la docilità, tutte cose che se unite alle lettere, alla musica, alla ginnastica e alla pittura, rappresenteranno la maestà divina»). Con queste parole si chiude il capitolo 34 il cui titolo è esso stesso interessante perché indica il fine ultimo al quale può aspirare chi regna bene: «Quod optimorum principum, qui bene, beateque vixerunt, tertium premium sit aeterna vita, ac beatitudo» (p. 147: «Che il terzo premio degli ottimi principi che abbiano vissuto bene e beatamente sarà la vita eterna e la beatitudine»); gli altri due premi saranno l’onore e la memoria. In sostanza sono tutte le virtù morali (cardinali e aristoteliche) che il principe ha in comune con i suoi governati e con i suoi cortigiani, e a queste si aggiungono anche le virtù fisiche dell’agilità, forza e grazia. La sola differenza è che nel governante queste virtù sono tutte e simultaneamente presenti, e sempre e tutte in forma perfetta, superiore alla norma. La lettura del libro non ricorda Il principe di Machiavelli, ma piuttosto il De principe di Pontano e ancora di più il De sacro regno di Francesco Patrizi da Siena che Nifo avrebbe potuto aver presente, come fanno pensare gli accenni alla ginnastica e alle arti liberali. È vero che gli exempla ricordano Il principe machiavelliano, ma essi appaiono anche negli altri trattati appena menzionati, e comunque hanno una funzione “retorica” e non “scientifica” o dimostrativa come succederà invece in Machiavelli. Tutto sommato, dunque, l’opera di Nifo continua la tradizione umanistica in cui le virtù per governare non sono diverse da quelle che confluicono nell’honestum e che vengono trattate nell’etica peripatetica. Lo è sicuramente il trattamento della prudentia che stava per assumere una nuova centralità culturale grazie ad un profondo mutamento semantico. Il criterio per giudicare la bontà del governare rimane ancorato a un bonum che in ultima analisi è quello della beatitudine eterna. Ciononostante potrebbe essere significativo il fatto che Nifo riproponga quei concetti tradizionali in un momento in cui il problema del “regnare” è veramente drammatico in un’Italia invasa dallo straniero e divisa fra la cultura delle signorie del nord e delle monarchie del sud: era semplicemente una posizione anacronistica o una volontà di opporsi alla novitas machiavelliana?

Il secondo opuscolo – in realtà un trattato diviso in cinque libri – è molto più vicino al Principe di Machiavelli per numero di riscontri, per temi e perfino nella strutturazione: si vede nella divisione dei tipi di “dominationes”, dei modi di conquistarle, dei modi di conservarle, delle armi utili nei rispettivi casi, e infine «de honesto regnandi genere». Anche la nozione di peritia presente nel titolo potrebbe essere vicina a Machiavelli: nessuno prima aveva parlato di una peritia, ossia di un sapere tecnico del governare ricavato dall’esperienza anziché dai libri. Ma le cose poi stanno diversamente, come di solito accade nei lavori di riscrittura che sono simili/diversi dal modello. In effetti se andiamo all’ultimo capitolo, vediamo l’essenza del trattato fin dal titolo: «Honesti regis finis» ossia «Il fine del re “onesto”». Ed eccone l’incipit: «Honesti vero regis finis primo est virtus, haec (ut Aristoteles inquit) est omnium honestarum actionum finis, hac homo homini praestat, per antiquitas Reges heroas fecit, ac ipsos inter Deos annumeravit»39 [«Il fine del re onesto è prima di tutto la virtù che (come dice Aristotele) è lo scopo di tutte le azioni oneste; e per esse l’uomo supera l’uomo, e per esse l’antichità considerava i re degli eroi e li collocava nel numero degli dei»]. Nifo sembra molto vicino al Principe anche quando cita esempi antichi e moderni (fra questi anche quello di Cesare Borgia), ma in realtà la filigrana del suo discorso è la vecchia tradizione umanistica, e il suo esercizio viene a dimostrare (benché ciò non fosse nelle sue intenzioni) che il discorso machiavelliano può essere riscritto lungo le linee della Politica e dell’Ethica di Aristotele.

In un simile progetto rientra anche il De rege et tyranno che, con un rimando esplicito, si lega all’opera precedente, quasi a voler mettere in evidenza che il suo piano è la trattazione di un sistema politico completo. Nifo divide l’opera in due trattazioni separate, la prima dedicata al tiranno e la seconda al monarca. Com’è da prevedere, il tiranno persegue il “bene individuale” ed è un egoista inaffidabile e crudele. Si può anche immaginare che l’autore non risparmi biasimo alcuno a questa figura deprecanda, e alla fine, dopo averne dato una tipologia, ritiene legittimo il tirannicidio. Il re, invece, offre il tipo di governo dell’“uno”, il migliore, come voleva la tradizione aristotelica. È un re buono, “onesto”, al quale l’autore presenta una serie di praecepta sul modo da tenere verso i sudditi, i ministri, i giudici, i collaboratori, gli amici e tutto il resto per assicurarsi la pace all’interno del suo regno e tenerlo coeso anche nell’eventualità di attacchi esterni. Non si deve pensare ad un’opera oleografica e convenzionale, ché Nifo da buon filosofo offre le “ragioni” perché il governo sia indispensabile e perché debba riflettere una visione universale delle cose, secondo le nozioni della “unità” e dell’armonia che avevano la loro base nei sistemi filosofici del tempo. L’opera è ricca di riferimenti storici, perché le tesi senza gli esempi rimarrebbero alquanto astratte; in ogni modo sono esempi con funzione puramente illustrativa, scelti solo per confermare delle leggi generali, contrariamente al metodo di Machiavelli il quale adduce gli esempi per ricavarne degli insegnamenti.

Quella di Nifo non sarà la sola risposta al Principe, ma è la prima e viene da un pensatore inquadrato nei sistemi tradizionali, ma sempre con una notevole intelligenza. Nel complesso l’opera di Nifo prova quanto fosse ancora forte l’etica dell’onestade che si rifà a principi razionali e metafisici (la natura) e ne vede i risultati nella storia.

Machiavelli.

Uno degli aspetti più nuovi del Principe e di altre opere di riflessione politica machiavelliane non è tanto l’indipendenza dalle fonti tradizionali – Machiavelli utilizza sia il De officiis ciceroniano40 sia Il De prudentia di Pontano41 sia le storie di Polibio e di Tacito – quanto lo spostamento dell’asse gnoseologico su cui avviene la ricerca della virtù. Tradizionalmente le virtù, anche quelle del principe, erano ancorate a criteri stabiliti dalla ragione, quali la bellezza nel caso di Platone, la medietà fra gli estremi viziosi o mesotes per Aristotele, e la natura nel caso degli stoici: erano in tutti i casi criteri “universali” senza i quali le virtù rimanevano prive di una base costantemente vera. Con Machiavelli questo fondamento universale viene sostituito da una base ampia e duratura ma non universale, e la potremmo chiamare “il comportamento”, ossia un equivalente della storia intesa non nei suoi ideali eterni bensì nel suo accadere, nel suo svolgersi e ripetersi. Le virtù sono habitus costruiti sul consenso di cosa sia un comportamento ritenuto buono, quindi non sono connaturate e portate all’atto da una buona disposizione, ma sono inclinazioni che si sviluppano regolandosi su quel consenso. Tutte le virtù sono ricavate dall’osservazione del comportamento umano che varia nei suoi accidenti da periodo a periodo e da nazione a nazione. Da quel quadro Machiavelli ricava la sua nozione della “virtù” particolare del principe, quella che davvero è indispensabile per governare. Nella sua opera prende il nome antico di “prudenza”, ma nel contesto in cui la colloca diventa di fatto una virtù nuova. E ancora una volta, la virtù del principe diventerà modello per i suoi sudditi e informerà “il comportamento” del Cinquecento e di buona parte del Seicento, prendendo il posto che per secoli aveva occupato l’honestum/utile.

Non è facile racchiudere in una definizione la complessa natura della prudenza. In parte essa arrivava a Machiavelli con una storia nel cui corso non perse mai l’ambiguità che le veniva fin dalla nascita. Abbiamo visto, infatti, che la nozione di phronesis era già ambigua in Aristotele perché poteva indicare sia una virtù noetica, affine alla sophia o sapientia, sia una virtù pratica che sorveglia e guida l’applicazione delle altre virtù morali. Nell’adattamento cristiano questa virtù fu tradotta come sapientia e come providentia, intendendo con la prima una situazione affatto spirituale e con la seconda un sapere pratico: data l’ambivalenza della sua natura era difficile confinarla in una sola sfera, e la soluzione di compromesso era vedere nella prudenza una virtù-ponte tra la sfera intellettiva e la sfera pratica, una sorta di sapientia practica. Questa era la soluzione tomistica che durò per secoli. Machiavelli invece intese la prudenza in un senso affatto nuovo, intanto perché per lui è “la virtù” di cui il principe aveva assolutamente bisogno per svolgere con successo il proprio ruolo, cioè per “conservare lo stato” dopo averlo conquistato. La “prudentia” per lui non faceva da ponte fra l’intelletto e le altre virtù, semmai fa “figurare” queste ultime nel tempo stesso in cui le rinnega o le considera “sacrificabili” al fine indicato dalla “prudentia”. Era un paradosso di alta complessità, ed era chiaramente impostato proprio in rapporto all’onestà nel celebre capitolo 18 del Principe, che conviene riportare almeno in buona parte. Il capitolo è dedicato specificamente alla fides: «Quomodo fides a principibus sit servanda», ossia «In che modo e’ principi debbano mantenere la parola data»; ma vi si afferma anche un principio generale che ebbe conseguenze incalcolabili:

Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.

Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e monstrare quante pace, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. Io non voglio, delli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che ad ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che l’osservassi meno; non di meno sempre li succederono li inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.

A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.42

La prima osservazione da fare è che la metafora centrale della “volpe e del leone” ha un antecedente nel De officiis di Cicerone, testo capitale nella nostra ricerca: «Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude fiunt iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore. Totius autem iniustitiae nulla capitalior quam eorum, qui tum, cum maxime fallunt, id agunt, ut viri boni esse videantur» (De officiis, I, 41: «L’ingiuria si può fare in due modi, cioè con la frode o con la forza, ed entrambe sono contrarie alla natura umana – la frode sembra propria della volpe, e la forza del leone –, ma la frode è più odiosa. Infatti, fra tutte le forme d’ingiustizia nessuna è più grave di quella attuata da coloro i quali, proprio nel momento in cui ingiuriano di più, fingono di agire da persone buone»); meno probabile è che Machiavelli l’abbia ripresa da Plutarco.43 In ogni modo si vede subito che il senso della fonte ciceroniana decisamente negativo nei riguardi della frode, viene stravolto da Machiavelli per il quale la combinazione di quelle caratteristiche bestiali diventa il fulcro della virtù del principe. E ancora più straordinario è che l’aspetto “volpino” di questa virtù venga praticato sotto lo scudo della “onestà”, esplicitamente e ostentatamente ricordato.

In secondo luogo è da notare che questa “regola” non era ricavata da un sistema filosofico vigente – il pessimismo machiavelliano non ha l’intelaiatura di un “sistema” vero e proprio – ma era dedotta dall’osservazione del “comportamento” degli uomini, sempre pronti a credere in quello che vedono anziché pensare a cosa potrebbe essere dietro le apparenze. Non è più l’onesto a persuadere e ad essere onorato, ma ciò che “appare” come tale. Il principe che non capisce questo fenomeno avrà un regno di breve durata.

Il nome che Machiavelli dà alla virtù del suo principe è quello di “prudenza”. In sostanza è una forma d’intelligenza delle circostanze e una previsione oculata dei possibili movimenti della “Fortuna” onde valutare i mezzi più appropriati per conquistare e mantenere il potere. È importante ricordare che “i mezzi” possono apparire odiosi, ma il fine è positivo, perché la conservazione dello stato significa ordine e stabilità grazie ai quali i cittadini prosperano e vivono contenti. Portando avanti questo ragionamento vediamo che il fine coincide con l’“utile” e il mezzo deve o può essere un “finto onesto”. È superfluo ricalcare quale rovesciamento di valori rappresenti questa tesi machiavelliana, così com’è futile tornare a discutere tutte le implicazioni contenute in questo realismo machiavelliano per quanto riguarda il discorso sulla scienza politica, e quindi cercare di stabilire se nella sua nozione di prudenza sia da vedere l’origine dello storicismo moderno. È risaputo come le affermazioni machiavelliane qui riportate e quelle espanse nel corso dell’opera abbiano offerto un’inesauribile materia di discussioni e di polemiche che per il momento non ci riguardano. Per quel che concerne il nostro tema, è chiaro come la virtù necessaria per governare non rientri nella sfera dell’onesto qual era concepito nella tradizione umanistica: semmai quell’onesto appartiene alla sfera privata anche di chi governa; e questa limitazione ne fa prevedere l’estinzione o comunque la perdita d’importanza nella vita civile. Uno dei primi segni di questa modifica è che non sia più un bene che si persegue per se stesso, e nella forma in cui sopravvive, sembra concepito a servizio dell’utile. In tutti i casi risulta che il principe conquisti fama e onore perseguendo l’utile, e, se necessario, rinneghi per questo fine le forme dell’onestade, utili anch’esse, anzi in modo speciale, per conseguire il proprio scopo. Nell’operare del principe si vede e si giustifica il suo ricorso alla simulazione e alla dissimulazione: altri “vizi” che avrebbero fatto inorridire i difensori dell’onestade di qualche decennio precedente. Le coraggiose affermazioni del segretario fiorentino – nate dall’esperienza di chi ha vissuto la politica – lasciano intendere quale dose di retorica (e non è un fatto negativo) tenesse in piedi un sistema morale e politico, vero e bello sulla carta e convincente nelle speculazioni accademiche, ma che appena messo alla prova mostrava tutta la sua fragilità. Dopo tutto la “morale” non era una branca della filosofia che si occupava del mondo pratico? Ora il contatto con il mondo reale doveva rinnovarne le tesi.

Il principe di Machiavelli non è un’opera di morale nel senso tradizionale né in alcun altro senso. Eppure quel principe rimase sempre uno “specchio” in cui molti vedevano un’immagine da imitare. Si può pensare che l’opera parli solo della “morale” del principe considerandola separata e “parallela” alla morale convenzionale, regolata questa dall’honestum/utile e dalla medietas aristotelica, quando non dai comandamenti cristiani. In effetti, nel principe machiavelliano la morale privata e la morale pubblica sono separate, come sono separate la morale pubblica da quella che ripone il sommo bene nella contemplazione o nella beatitudine eterna. Sembra un fatto irrilevante e pacifico, e invece è tutt’altro: è un’acquisizione epocale che porta alla separazione della sfera politica da quella delle virtù tradizionali e apre un solco profondo tra la sfera pubblica e la sfera privata. Per giunta tale solco non si deve mai far vedere, perché l’arte o la tecnica del vivere bene, di reggere bene la propria vita, è apparire all’opinione pubblica nella forma voluta da essa, mentre si deve celare quello che veramente si è. L’aver svelato la natura della prudentia del principe e dei vantaggi che portava seco, apriva la porta all’imitazione, e tale prudenza si diffonderà presto in modo da diventare la “virtù” dominatrice nel discorso morale del secolo: prenderà il posto dell’honestum e sarà una prudenza che procaccia l’utile (fine dell’azione morale) con facilità tanto maggiore quanto più saprà presentarsi come onesta. Un effetto siffatto doveva essere immediatamente previsto, e ciò potrebbe spiegare gli interventi riparatori di un Nifo. Del resto il successo dell’opera machiavelliana si spiega bene pensando che realtà già molto diffuse trovavano in essa una formulazione letterario-filosofica.

Alle origini delle innovazioni culturali del Cinquecento, caratterizzato dalla prudentia, si deve porre la rivoluzione epistemica di cui Machiavelli è forse il motore principale. Essa consiste nel considerare la morale indipendentemente da ogni principio metafisico e nel ricavarne le regole osservando il comportamento dell’uomo. E siccome proprio a costui si daranno le regole dedotte dal suo modo di comportarsi, è chiaro che il lavoro principale del moralista sarà di mostrare agli uomini la loro vera natura onde poter vivere meglio in loro compagnia: non è un “conoscere se stessi” nel senso di scendere nell’“interiore homine”, bensì nel senso di studiarsi in funzione della maniera di presentarsi agli altri. Il comportamento diventa la fonte e l’oggetto dello studio e ne diventa anche il fine. È un circolo conoscitivo diverso da quello voluto dall’onestade che poneva nell’honestum/utile il fine dell’azione morale, e questo a sua volta poneva le sue radici nella natura o in un criterio stabilito dalla ragione o addirittura nella rivelazione. Ora nella rivoluzione che tentiamo di descrivere si studia il comportamento altrui per imitarlo e/o per adeguarvi il proprio, in modo da vivere in società con il minimo di frizione e quindi prevenendo il più possibile le occasioni di contrasto e di potenziale ostilità. Il comportamento è un grandissimo campo di osservazione perché è onnipresente e obbliga tutti ad entrarvi con il duplice ruolo di attore e di spettatore, in continua tensione nell’apprendere e simultaneamente nel mettere in pratica ciò che si apprende. Si può identificare con le forme di convivenza che una società detta a se stessa, le forme in cui i suoi membri interagiscono. La relativa stabilità del modus vivendi in società consente di ricavarne le norme che a loro volta perpetuano il comportamento stesso. La svolta epistemica è che in questo nuovo tipo di studia humanitatis le fonti dello studio non sono i libri, ma l’osservazione diretta della “natura” degli uomini. Gli umanisti cercavano nelle storie gli exempla da imitare e per illustrare la natura dell’uomo; ora si leggono le storie solo per avere una conferma di quel che gli uomini sono stati e saranno sempre. Lo dice lapidariamente Machiavelli nei Discorsi:

Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritatamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto.44

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Machiavelli ebbe certamente un ruolo fondamentale nel porre il comportamento dell’uomo alla base della sua ricerca, comunque lo affiancavano in questo altri autori di statura notevolissima, e questo ci fa pensare che qualcosa fosse maturato per orientare in modo nuovo il modo di gestire il sapere. Ne ricordiamo solo due. Il primo è Baldesar Castiglione il cui capolavoro, Il Cortegiano, è strettamente contemporaneo del Principe, anch’esso iniziato nel secondo decennio del Cinquecento ma pubblicato nel 1528. La formazione del cortigiano non è libresca o da biblioteca, ma avviene nella stessa corte, osservando e imitando gli altri cortigiani. Solo dalla quotidiana e intelligente osservazione del comportamento “standardizzato” o codificato di chi vive a corte, il nuovo accolito apprende a comportarsi in modo affatto conforme a quello standard. Sarà un processo di studio degli altri e di osservazione di se stesso, e sarà compiuto quando il modo di osservare come quello di attuare raggiungeranno un livello di naturalezza, di “colta spontaneità” o di eleganza priva di affettazione. La “misura” si manifesta nella perfetta sintonia con l’ambiente circostante. Quanta “prudenza” si richiede in quell’apprendistato, quanta oculatezza nello studiare gli altri e quanta sorveglianza nel proprio modo di comportarsi? L’apprendistato finisce quando la prudenza diventa seconda natura.

L’altro autore che ritiene indispensabile lo studio del comportamento è Francesco Guicciardini, associato per professione e per vicende biografiche a Machiavelli. Di lui ci occuperemo in seguito, ma per ora vorremo solo ricordare che non scrisse direttamente sul “principe” per indicarne le virtù e i doveri ma scrisse molto sui principi e sul loro operato. Non solo: scrisse molto anche dei “cittadini” e di se stesso nel tentativo costante di capire le reazioni umane in tutte le situazioni, normali o eccezionali, perché vivere fra gli uomini è un’impresa complessa, e se ne può uscire vincitori solo se si riesce a prevedere il comportamento di chi ci sta attorno. Anche per Guicciardini, dunque, una ricerca a due corsie: una degli altri e una di se stessi. Quale terreno più fertile per coltivare la virtù della prudenza? E di questa dovremmo occuparci, ma non senza aver prima passato in rassegna la trattatistica sul principe venuta in seguito al Principe. Il motivo per questo indugio è chiaro: l’opera di Machiavelli, come abbiamo detto, non inaugura un tramonto ma un’aurora. Tuttavia per avere una percezione più chiara della forza della nuova luce è giusto dare un’idea delle resistenze che aveva trovato. Le grandi conquiste culturali presuppongono sempre ardue battaglie.

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La trattatistica sul principe segue due parabole che s’intrecciano, ma una di queste segue un vettore in discesa mentre l’altra punta in alto. Il primo è quello tradizionale che mantiene a tutti i costi la tradizione del principe modello dell’onestade, mentre il secondo porta alla vittoria le innovazioni di Machiavelli. Nel frattempo la prudentia emerge quale virtù maestra a sostituire l’honestum. A conferma aneddotica, ma non tanto, ricordiamo che il re di maggior splendore nel Cinquecento, Filippo II di Spagna, ebbe l’appellativo di “re prudente”.

La trattatistica tradizionale sul principe “onesto” resistette a lungo: le tradizioni sono tenaci quanto più sono placide e rassicuranti, e tale era quella di un principe buono che protegge il suo popolo. La sua vitalità non scalfì minimamente le tesi machiavelliane – come invece fece la tradizione dell’impegnato anti-machiavellismo che fu robusto soprattutto in Spagna e in Francia dove erano ben radicate le monarchie assolute –; tuttavia costituì una voluminosa alternativa che in qualche occasione apportò delle modifiche al machiavellismo radicale. Nel 1542 usciva a Venezia De lo instituire lo figlio di un principe infino agli anni della discrezione, in cui l’autore, Fausto da Longiano, propina tutti i consigli umanistici del caso, dalla lettura dei classici al tipo di giochi, dal tipo di balia alla scelta dei servitori, e si esorta il futuro principe a farsi amare, perché l’amore dei sudditi è l’arma migliore per reggere bene il governo.

Francesco Garimberto.

Due anni dopo (Venezia, Scotto, 1544) Francesco Garimberto pubblicava il suo De’ reggimenti pubblici della città, opera alquanto interessante che documenta quanto fosse radicato l’insegnamento della Politica di Aristotele. Garimberto, infatti, applica la differenza aristotelica fra civitas (che riguarda il ruolo e la partecipazione di tutti i cittadini alla vita della comunità politica) e respublica (che riguarda l’aspetto “costituzionale” dello stato, sia esso formalmente una repubblica o una monarchia), e vede nella politica il fine “formale”, che non è la felicità dei cittadini, quanto invece la propria adesione o il conformarsi all’ordinata maniera che regola il rapporto fra chi comanda e chi ubbidisce. Non a caso una buona parte del primo libro è dedicata quasi tutta al ruolo dei servi e degli schiavi nella società. Data tale impostazione si capisce che la virtù non entri nel discorso garimbertiano con un ruolo in qualche modo comparabile a quello che ha nel Principe di Machiavelli (autore per altro tacitamente ricalcato in alcune diagnosi storiche). Garimberto non parla di virtù in alcun modo rilevante per il nostro discorso (parla ad esempio di «monarchia erroica», lib. II, capitolo 21, ma si riferisce alle monarchie divine dei Saturno), pertanto lo spazio lasciato agli scrittori convenzionali di politica rimaneva ampio. E “convenzionale” non significa necessariamente privo d’interesse: Garimberto presenta temi interessantissimi, ad esempio, la costituzione dei gruppi e dei poteri cittadini (temi fino ad allora considerati dalla letteratura giuridica); tocca aspetti delle «parti honeste della mercantia» (I, c. VIIIv), ma non gli argomenti che sono fondamentali nel Principe di Machiavelli, e perfino le virtù tradizionali trovano poco spazio nella sua opera.

Giovan Battista Pigna.

In questo è diversa da Il principe di Giovan Battista Pigna pubblicato nel 1561 (Venezia, Guidi), quindi alla vigilia della chiusura del Concilio di Trento. Il sottotitolo annuncia un programma che sembra impostare un’alternativa alla virtù machiavelliana, ed è la virtù tradizionale ma elevata a grado eroico: Il principe. Nel quale si discrive come debba essere il Principe Heroico, sotto il cui governo un felice popolo, possa tranquilla et beatamente vivere. Il programma è esposto nella dedica a Emanuele Filiberto duca di Savoia – il Ducato che proprio in quegli anni comincia a svolgere un ruolo visibilissimo nella cultura italiana, attirando personalità quali Botero, Marino e più tardi Tesauro –: «Porgo dunque all’altezza V., come a Principe Heroico, il Principe ch’io ho fatto per formarne uno, che non dalla estremità delle forze, né dall’ampiezza de gli imperii, né da una monarchia, ma dalla eccellenza e de le virtù, et dal dominio legittimo, et dal prudente governo debbia essere misurato». Nella dedica Pigna anticipa anche il modello classico al quale s’ispira: Scipione l’Africano. Il trattato potrebbe essere considerato come una risposta a Machiavelli in quanto sostituisce la “virtù” del principe machiavelliano con una “supervirtù” che rientra nell’ordine delle virtù cardinali o di quelle aristoteliche e le assorbe tutte in sé ma le supera di grado. Questa virtù eroica non solo è la perfezione e il grado massimo di tutte le virtù, incluse quelle teologiche, ma conserva anche un legame con la nozione di “eros” ossia l’amore platonico, in quanto il principe eroico aspira alla perfezione, perché motivato dall’amore di essa, e poiché questa perfezione si dà solo in Dio, è chiaro come il principe sia un mediatore fra l’uomo e Dio. Quest’ultimo particolare distingue la “virtù eroica” qui teorizzata dalla “virtù eroica” di cui si parlerà intensamente qualche decennio più tardi. Pigna, ovviamente, ritiene indispensabile il ruolo della religione nel governare, in primo luogo perché essa legittima il potere. Il suo trattato si muove, dunque, sulla strada che percorreranno molti autori nel tentativo di legittimare il potere, ponendosi un problema che né Machiavelli né la tradizione umanistica contemplavano, ma che nel secondo Cinquecento diventa inevitabile, forse per il fiorire dei principati e delle monarchie assolute. Pigna – che scriveva a Ferrara e quindi si rivolgeva discretamente e senza eccessivi omaggi al suo signore –, conosce le virtù della “prudenza” e l’arte della “dissimulazione”, ma non assegna ad esse alcun ruolo dominante perché nella nozione di “eroismo” tutte le virtù devono essere presenti con peso uguale; anche in questo livellamento si può cogliere la polemica contro Machiavelli. In ogni modo è chiaro che la virtù “eroica” non è l’honestum perché solo il principe o altri personaggi di stato eccezionale (la virtù eroica abbraccia anche il valore militare) possono esserne dotati. Il principe possiederà tutte le virtù, ma proprio per questo diventa un modello così alto e singolare che i suoi sudditi non possono più seguire. La politica rimarrà legata alla morale, ma il legame sembra nelle mani di una sola persona. La presenza di Machiavelli mostrava la sua influenza proprio dove la si combatteva.

Potremmo continuare ricordando varie opere di argomento politico che costellano il secondo Cinquecento. Sono opere disuguali ma tutte a loro modo interessanti, come Del governo dei regni di Francesco Sansovino (1561), gli Avvedimenti civili di Gian Francesco Lottini (1574), il Compendio della vita civile di Francesco di Vieri (1587) o i Discorsi politici di Paolo Paruta (1599) e numerosissimi altre45 nelle quali è vivo il problema delle qualità necessarie per governare, poiché l’idea tradizionale che bastino le virtù per poterlo fare è ormai cosa del passato: semmai si tratta di sapere come possano giovare al principe nel reggere il suo stato. In altre parole, tutte queste opere affrontano il problema del rapporto fra etica e politica ereditato dalla tradizione, solo che in essi è viva l’insistenza sul ruolo che le virtù possono avere nella conservazione del potere, e in questo studio affiora sempre più chiara la consapevolezza della forte incompatibilità fra la morale tradizionale e la politica. La possibilità di mantenerle insieme avveniva a costi notevoli in cui aveva un ruolo sempre crescente l’ipocrisia, la simulazione e la prudenza. Si cacciava Machiavelli dalla porta e si apriva la finestra a Tacito, e si diffondeva il fenomeno del tacitismo46 e della cosiddetta tiberizzazione di cui abbiamo visto un accenno anche nel saggio di Montaigne De l’utile et de l’honneste. L’immagine diffusa della temperie culturale nel periodo della Controriforma, immagine dominata dai motivi di falsità e tradimento e censura, trova una conferma in questi trattati di politica. Anche se non viene esplicitamente detto, è chiaro come la convivenza tradizionale dell’onesto e dell’utile fosse sempre meno sostenibile man mano che veniva mutando la concezione della politica e soprattutto della natura di uno stato moderno. Ormai veniva sempre più imponendosi la concezione che lo stato non fosse la “proprietà” di un regnante o di una famiglia, ma un’istituzione che doveva garantire la convivenza di tutte le forze sociali antagonistiche o meno che ne facevano parte, e la garanzia riposava sulla legge, imposta inizialmente da una parte egemone ma poi vincolante anche per chi la detta. In questo modo lo stato s’imponeva come una ragione superiore in grado di dare stabilità, di superare la nozione di stato legato alla persona del regnante, di impostare il discorso sulla politica in modo veramente autonomo dalla morale del principe. Ma siamo ancora agli albori della nozione moderna di stato, e per il momento si cerca di mantenere vivo quel legame, anche se, come dimostrano i testi ricordati, risulta sempre più difficile trovare una formula che lo dissolva in modo soddisfacente; non si può dimenticare, infatti, che la religione, con il suo preteso monopolio sulla morale, era vessata da eresie e da guerre e quindi opponeva una resistenza strenua ad ogni tentativo di esautorarla.

Giovanni Botero.

Un passo fondamentale verso la visione moderna dello stato fu fatto da Giovanni Botero, il quale riuscì ad indicare nel titolo di una sua celebre opera, Della ragion di stato, la formula che definiva il tema attorno al quale si sarebbe dovuta svolgere la discussione. Botero era uomo esperto di corti, di ambascerie ed era in primo luogo un uomo di religione. Il suo saggio La ragione di stato coniò con il suo titolo una formula destinata ad avere un grandissimo successo internazionale, e se non ne fu l’autore primario fu senz’altro colui che le impresse una durabilità che non si è a tutt’oggi esaurita. Stando alle dichiarazioni che Botero fa nella dedica della prima edizione (1589), lo stimolo a scrivere l’opera gli venne dall’aver sentito in giro per il mondo gli elogi di Machiavelli e di Tacito per quel che riguarda l’arte di governare. Egli trovava l’apprezzamento inaccettabile perché entrambi gli autori lodati mostravano una totale indifferenza verso il ruolo che la “coscienza” deve avere in chi governa.47 E diversamente da Machiavelli egli scrive pensando al modo di conservare lo stato, non già ai modi di conquistarlo. È una differenza dovuta in gran parte all’epoca diversa, al periodo in cui i Bodin in Francia o i Ribadeneyra in Spagna affrontavano il problema modernissimo di “legittimare” il potere, e qui non conta molto ricordare che Bodin cercava una legittimazione giuridica48 e Ribadeneyra la cercava nella religione. Botero definisce la «ragion di stato» come «la notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare il dominio», ma dice anche che l’interesse più immediato della sua ricerca è quello della conquista quanto della conservazione dello stato, due operazioni che richiedono due facoltà diverse: lo stato «s’acquista con la forza, si conserva con sapienza» (lib. I, cap. 5: «Qual sia opera maggiore, l’aggrandire o il conservare uno stato», ed. Continisio, p. 10). In un progetto del genere il ruolo delle virtù tradizionali poteva essere ancora vitale. Effettivamente il trattato di Botero dedica i primi due libri a stabilire le “fondamenta virtuose” del principe. Queste sono le quattro virtù cardinali, due delle quali, giustizia e liberalità, servono al principe per farsi amare, e le altre due, prudenza e temperanza, per farsi rispettare. Il tutto va cementato dalla religione, fondamento ultimo delle virtù. È interessante per noi che riappaia in questa forma l’importanza delle virtù che costituiscono l’onesto, ed è interessante anche il fatto che nel descrivere queste virtù Botero ricorra spesso a Cicerone, particolarmente al De officiis, come dimostra il commento della Continisio.

Ma il resto del libro è dedicato alla “prassi” del governare, e qui il ruolo della virtù passa in secondo piano. Semmai entra in gioco la “sapienza”, necessaria per la conservazione dello stato, e questa s’identifica soprattutto con la prudenza che non esclude la forza fisica. Botero è minuzioso e preciso nel tracciare una mappa dei protagonisti nel campo delle situazioni politiche, di leggerne gli umori e i bisogni, di saperli controllare affinché il potere non si sfaldi. A questo fine chi governa deve usare prudenza e fortezza. Se necessario, deve usare la forza coercitiva, e se è necessario non deve indietreggiare davanti alle mosse dettate dall’astuzia (purché non diventi frode) e deve saper dissimulare se questo è nell’interesse della “ragion di stato”. Insomma, la lezione di Machiavelli non viene punto rifiutata, anche se ancora la si corregge portando in campo il mondo dell’onesto o delle virtù cardinali. Dunque “la ragion di stato” è lo scopo dell’azione politica intesa a conservare lo stato in quanto tale. È un fine che giustifica le infrazioni della morale tradizionale perché lo stato diventa la ragione superiore a tutte le ragioni individuali.49 L’idea di conciliare la morale con la politica, l’onesto con l’utile rimane un pio progetto, perché quando si arriva al punto concreto dall’agire si «tenga per cosa risoluta, che nelle deliberazioni de’ Principi l’interesse è quello che vince ogni partito, e perciò non deve fidarsi d’amicizia, non di affinità, non di lega, non d’altro vincolo nel quale chi tratta con lui non abbia fondamento d’interesse» (lib. II, cap. Capi di prudenza, p. 51), come deve ammettere lo stesso Botero.

Botero non indugia mai a parlare dell’onesto perché, evidentemente, non lo ritiene necessario, visto che l’insieme delle quattro virtù sono l’onesto, anche se questo non è più inteso come “il sommo bene”. Tuttavia Botero non si serve delle quattro virtù come di un ideale al quale dover pensare quando si disegnano i doveri del principe: è chiaro, ormai, che dopo l’omaggio formale alle virtù cardinali, il compito del governare richiede ricorsi pratici non più valutabili con il metro delle virtù cardinali o morali o teologiche che siano.

La tradizione degli “specula regis” è di fatto estinta, e con essa muore l’onestade dietro la pressione dell’utile identificato con la conservazione del governo. È un risultato che si profila sempre più chiaro man mano che si procede nel tempo e si leggono i Ludovico Zuccolo, i Ciro Spontone, i Ludovico Settala, i Girolamo Frachetta e tantissimi altri autori che scrissero sulla “ragion di stato” nel Seicento, uniti in uno sforzo che voleva portare a conseguenze nuove e moderne la relazione anch’essa nuova fra etica e politica. Per il nostro proposito non occorre inseguire gli sviluppi di questa letteratura: alla fine del Cinquecento è ormai evidente che il supporto della politica alla nozione dell’onestade è definitivamente venuto meno e che l’utile si è sganciato completamente dall’onesto. Ormai il rapporto fra politica e morale si avvale di un legame vecchio/nuovo che si chiama “prudenza”.

Guicciardini e la prudenza.

L’attenzione al “comportamento” è all’origine della tradizione di scrittori “morali” che produssero un po’ in tutta l’Europa, a partire dal secondo Cinquecento, una ricchissima letteratura con opere che si ponevano un fine educativo pratico o che semplicemente studiavano la morale per osservare la natura della psicologia umana.50 E se in quelle origini abbiamo collocato in primo posto Machiavelli, ora dobbiamo concedere quel luogo a Francesco Guicciardini. Il Segretario fiorentino si occupò dell’aspetto politico e di dare praecepta per il principe; Guicciardini si occupò del “cittadino”, ossia non di chi regge il potere, ma di chi deve sostenerlo o esserne soggetto; e poiché in questa sezione ci interessa vedere come alla “prudenza” del principe corrisponda quella del cittadino privato, la nostra attenzione si rivolgerà a Guicciardini. A quest’acutissimo osservatore del comportamento umano l’Occidente deve l’introduzione di alcuni termini chiave del discorso morale, come “discrezione” e “prudenza” e “il particolare”.

E proprio “il particolare” ha contraddistinto in modo negativo l’immagine di Guicciardini, che De Sanctis bollò come il creatore “dell’uomo del particolare”, dell’uomo egoista, privo di ideali e solo attento al suo interesse privato. Purtroppo certe “calunnie” hanno vita lunga e la loro durata viene ricordata per ribadirne la veracità. Per noi sarebbe utilissimo accettarla perché avremmo una prova che già nella prima metà del Cinquecento (Guicciardini morì nel 1540) l’utile veniva pensato in termini assolutamente autonomi rispetto all’onesto. E questo sarebbe vero se fossero vere tante altre cose. Prima di tutto, quali testi di Guicciardini contengono le affermazioni ricordate? Ed è poi certo che “il particolare” debba intendersi nell’accezione moderna di tornaconto o d’interesse materiale? Guicciardini fu autore di molti scritti, ed è risaputo che, a parte i libri di storia, fu intenzionalmente autore non sistematico, perché non era convinto di poter trovare “un sistema” nella realtà se non la mancanza della sistematicità stessa che si trova solo nelle generalizzazioni dei libri di morale. Per questo le sue affermazioni vanno prese con un margine di relatività, e sono spesso consegnate a scritti aforistici, a “pensieri”, che, nonostante la loro lucidità, mancano di un ampio contesto argomentativo,51 per cui è possibile travisarne il significato. Prendiamo, ad esempio, uno dei passi classici in cui parla “del suo particolare”:

Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: sì perché ognuno di questi vizî in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizî sì contrarî che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizî o sanza autorità.52

Cosa deve intendersi per «il particolare mio»? Non sembra che si tratti di vantaggio economico, anche se non lo si può escludere. Sembra invece un vantaggio “politico”, una difesa prudente di una posizione in cui la frizione con i papi o con la Chiesa avrebbe conseguenze negative. Ammettiamo che siano vere entrambe le interpretazioni, ma bisogna anche ammettere che non è facile sapere o decidere cosa sia il proprio “particolare” o l’interesse personale, come sostiene lo stesso Guicciardini in un altro “ricordo”:

Quegli uomini conducono bene le cose loro in questo mondo, che hanno sempre innanzi agli occhi lo interesse propio, e tutte le azione sue misurano con questo fine. Ma la fallacia è in quegli che non conoscono bene quale sia lo interesse suo, cioè che reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario più che nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome.53

Dal passo si deduce che l’onore sia il “particolare” più desiderabile, perché è un interesse non illusorio, mentre quello pecuniario viene definito addirittura come fuorviante. Credo, con Francesco Bruni,54 che l’onore sia veramente “il particolare” che Guicciardini pone come traguardo del vivere sia civile che privato. Potremmo rafforzare questa idea adducendo vari testi guicciardiniani, ma troveremmo poi altrettanti testi che mettono in dubbio la nostra supposizione; e questo sarebbe in linea con la nota rinuncia del nostro autore a “definire” una volta per tutte una verità, specialmente se questa è di natura psicologica. In questo caso non sarebbe sbagliato avvalersi della “vita” di Guicciardini per dedurre che s’impegnò a vivere con onore suo e della sua parte o della sua classe perché l’onore era per lui un bene pubblico, e mantenerlo significava mantenere la stabilità della società. Torneremo su quest’argomento; per ora notiamo che Guicciardini non aveva “innanzi ai propri occhi” la virtù che porta all’onestade, ma un valore sociale che si chiama onore e che non è esattamente l’onesto. Infatti, per raggiungerlo sono necessarie due virtù particolari: una è la “discrezione” e l’altra è la “prudenza”. Su queste due vie alla conquista dell’onore Guicciardini è tornato molte volte e senza tante ambiguità, anzi con penetrante lucidità, per cui non a caso fu in questo maestro a schiere di ammiratori fra i quali si annovera anche Montaigne.

Quasi in apertura dei Ricordi, ci imbattiamo nella nozione di “discrezione”:

È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.55

Come accade sempre quando si cerca di definire una “quasi virtù”, anche nel caso della discrezione dobbiamo tentarne una descrizione piuttosto che proporne una definizione che risponda a tutti i requisiti della logica, indicandone prima la specie e poi la differentia. Per quanto riguarda la “specie” potremmo includerla nella sfera della sapienza o prudenza o in quella della temperanza o anche della giustizia. Poi per la differentia potremmo dire che è diversa dalla discretio medievale, dalla “sprezzatura” del Castiglione e dalla “modestia”. Potrebbe avere molto in comune con tutte queste virtù ma non è esattamente una di esse, e per giunta non esiste una tradizione che la illustri e le accezioni moderne non rendono bene il significato inteso da Guicciardini. Si tratta, insomma, di una virtù nuova con la quale Guicciardini rispondeva ad un’esigenza nuova. Ma si tratta proprio di una virtù nel senso convenuto di questo termine, cioè di una disposizione naturale poi coltivata e perfezionata dalla ragione e che ci porta alla felicità o anche alla salvezza? Non sarà piuttosto una tecnica o un’arte che si rinnova continuamente nella forma ogni volta che reagisce ad una situazione? Comunque stiano le cose, si può dire in generale che la discrezione sia la capacità di “discernere” le cose e valutarle nel loro valore reale, andando oltre le apparenze. Significa capire le circostanze e vedere le cose del mondo non “indistintamente e assolutamente”, ma con “distinzione ed eccezione”. E se è arte non è possibile che abbia un’origine “naturale”, ma si forma, si acquista e si perfeziona con l’esperienza. La discrezione è una capacità di giudizio, una forma di perspicacia indispensabile per chi governa, ma anche per i governati; ed è un’arte che si esercita nella vita quotidiana come nelle occasioni straordinarie, quasi una specie di guardia che non si deve mai abbassare. Questa “discrezione” individuata da Guicciardini è indispensabile in chi detiene il potere, ma altrettanto indispensabile per chi vuole vivere senza lasciarsi ingannare dalle apparenze. Così una delle maggiori virtù o tecniche del politico cominciò a diffondersi fuori dalla reggia fino al punto da caratterizzare in gran parte la società del secondo Cinquecento e del Seicento, e da costituire un tema ricorrente nella trattatistica morale. Lo sancisce El discreto del grande Baltesar Gracián del 1646, circa un secolo dopo che Guicciardini scriveva i suoi Ricordi (pubblicati per la prima volta nel 1576), un secolo nel quale tutto il senso della “cautela” implicito nella discrezione guicciardiniana, così come anche la sua utilità nel penetrare nelle pieghe e nelle dissimulazioni dell’animo umano e nel rapporto tra le apparenze e realtà, fu variamente sviscerato.

La prudenza ha invece un ruolo attivo perché riguarda il momento dell’azione susseguente alle conclusioni raggiunte dalla discrezione. Questa virtù ha una storia lunga su cui non torniamo se non per ricordare la versione di Machiavelli – in parte anticipata da Pontano –56 che ne fece la virtù per eccellenza del principe. Guicciardini va oltre: per lui la prudenza è la virtù non solo di chi governa, ma di qualsiasi cittadino che intenda vivere in un mondo dove – oltre ai rovesci della Fortuna contro i quali non c’è virtù che valga – le difficoltà, le insidie, gli abbagli di occasioni speciose sono innumerevoli. Questa prudenza non ha più il valore “eroico” che poteva avere in Pontano e perfino in Machiavelli nel senso che riesce in qualche misura a prevenire le mosse della Fortuna: per Guicciardini questa non ha avversari degni di considerazione perché è imbattibile. La sfiducia di poterle resistere diventa, specialmente dopo il sacco di Roma, una nota dominante e si colora di un pessimismo, che però non cade nella disperazione, perché la “prudenza” gli indica la via da seguire. In effetti, questa nozione domina negli scritti di Guicciardini, non tanto nei Ricordi, ma certamente negli scritti di storia.57 Ad esempio, sono istruttive le considerazioni su Ferdinando il Cattolico fatte nel suo Discorso di Logrogno, in cui l’autore osservava come la prudenza del re spagnolo fosse alla radice del suo successo. La prudenza non consiste tanto nell’opporsi alla fortuna ma nello stare al suo gioco, cioè giocare la parte che essa ci assegna; e farlo quanto meglio possiamo significa essere “prudenti”. Ciò vien detto esplicitamente in un passo della Consolatoria, un’oratio ficta, datata al 1527, un cui un amico lo consola dei danni dell’Italia, diventati evidenti con il sacco di Roma:

Dicono alcuni savi che la vita nostra è simile a una commedia, nella quale a dare laude a coloro che vi recitano, non si attende tanto che persona ciascuno sostenga, quanto se porta bene la persona che ha: perché a ognuno tocca a fare la persona che gli è assegnata, e quello che è proprio suo è el modo del farla. Così la persona che sostegnamo nel mondo è quella che ci è data dalla fortuna, ma quello che è laudato in noi è el modo con che noi viviamo nel grado o nella sorte nostra; e se nelle commedie è degno di laude chi rapresenta bene una persona, quanto sarà più lodato chi ne rapresenterà bene dua, massime di spezie diversa!58

Con queste idee Guicciardini inaugurava un’epoca, in quanto, se non era il primo a parlare di “prudenza”, fu certamente l’autore che ne avvertì l’importanza sociale. Di questa virtù si fecero forti le generazioni del secondo Cinquecento e oltre, perché serviva a mettere un po’ a tutti una maschera, utilissima in un mondo che si andava trasformando in un teatro, dove tutto poteva essere una finzione. Era un mondo in cui venivano meno le sicurezze sulle quali qualche decennio prima si poteva contare: ora si indebolivano le certezze della fede – scosse dalla Riforma che non garantiva più il valore delle opere nei riguardi della salvezza eterna –, le certezze nella guida dei principi – messe in crisi dalle teorie di Machiavelli – e perfino l’eliocentrismo sembrava prossimo a cadere in crisi. Il messaggio guicciardiniano sembrava anticipare quello che recentemente è stato formulato dal teologo Reinhold Niebhur in forma di preghiera (e di fatto confluito nella Serenity Prayer americana): «Che Dio ci dia la grazia di accettare con serenità ciò che non possiamo mutare, il coraggio di cambiare ciò che possiamo cambiare, e la sapienza di distinguere quel che è possibile da quel che è impossibile». La discrezione dava la capacità di distinguere ciò che era possibile da ciò che non lo era, e la prudenza portava ad agire di conseguenza. Sembrava una virtù che predicava la rassegnazione e l’opportunismo, caratteristiche della vigliaccheria tipica dell’«uomo del Guicciardini», come diceva con disprezzo Francesco De Sanctis. Di fatto era un invito alla “responsabilità”, a vivere correttamente entro le possibilità date dalle circostanze, e vivere in questa tensione in modo strenuo e costruttivo.

Costruttivo di che? La risposta è senz’altro “dell’onore”, il vero “particolare” che Guicciardini difende senza mai essere esplicito, perché è la finalità ovvia del vivere civile. Ma non è facile, ancora una volta, afferrare il significato di ciò che Guicciardini intende per onore. Proviamo a farlo riportando due “ricordi”. Il primo è il numero 16 della prima parte della raccolta:

Le grandezze e gli onori sono communemente desiderati, perché tutto quello che vi è di bello e di buono apparisce di fuora e è scolpito nella superficie: ma le molestie, le fatiche, e fastidî e e pericoli sono nascosti e non si veggono; e quali se apparissino come apparisce el bene, non ci sarebbe ragione nessuna da dovergli desiderare, eccetto una sola: che quanto più gli uomini sono onorati, reveriti e adorati, tanto più pare che si accostino e diventino quasi simili a Dio, al quale chi è quello che non volessi assomigliarsi?59

Il secondo, sempre dalla parte I, è il numero 32:

La ambizione non è dannabile, né da vituperare quello ambizioso che ha appetito d’avere gloria co’ mezzi onesti e onorevoli: anzi sono questi tali che operano cose grande e eccelse, e chi manca di questo desiderio è spirito freddo e inclinato più allo ozio che alle faccende. Quella è ambizione perniziosa e detestabile che ha per unico fine la grandezza, come hanno communemente e prìncipi, e quali, quando se la propongono per idolo, per conseguire ciò che gli conduce a quella, fanno uno piano della conscienza, dell’onore, della umanità e di ogni altra cosa.60

Il primo passo fa capire che l’onore è frutto di fatica, di lavoro, di sacrificio. Fa anche capire che solo chi è disposto ad affrontare impegni simili merita il vero onore che, in quanto tale, non è solo l’apparenza di una bellezza intima, ma la soddisfazione di sentirsi pari a una divinità. L’iperbole non deve spaventare né esser considerata blasfema: l’immagine di Dio è invocata in quanto “creatore”, e l’onore è una creazione o meglio la realizzazione di chi aspira a tale dignità. Questo bisogno di “soddisfazione” intima è il segno dell’onore vero, perché quello che si cerca per esibirlo e trarne vantaggio e che si conquista anche a costo di sacrificare la propria coscienza non è un onore da perseguire. Il vero onore è chiaramente un far parte e un inserirsi nella società contribuendo ad essa con azioni grandi ed eccelse o anche vivendo onestamente senza turbarne l’ordine. In entrambi i casi si capisce quanto sia importante la discrezione e la prudenza per arrivare a questo fine. L’onore così inteso è la dignitas di chi vive all’altezza delle proprie possibilità, e in questo si rivela membro degno di una società che lo ripaga riconoscendogli questa dignità.

Siamo ancora entro un campo dove è possibile ritrovare Aristotele e Cicerone, cioè in una sfera in cui rimane saldo il rapporto fra virtù e onore. Sennonché vi sono delle innovazioni rilevanti, poiché nei sistemi classici l’onore era il frutto della virtù e non lo scopo delle virtù stesse che, semmai, puntavano all’honestum. In Guicciardini il ruolo e il posto delle virtù nella vita morale sono dati per scontati o, ancora meglio, sono limitati alle due virtù più importanti, ossia alla discrezione e alla prudenza; in ogni modo ciò che conta è conseguire l’onore o il riconoscimento pubblico. L’onore è un valore “costruito” da queste due virtù, e la sua visibilità giova come faro dei valori della società. Guicciardini non pensava ad un onore che non avesse dietro la forza dell’onestade, ma l’averlo chiaramente indicato come il fine più alto della vita morale – nessun cenno in lui della salvezza eterna o di un sommo bene trascendente – poteva imprimere la tendenza a proporlo come fine primo della moralità. E fu ciò che avvenne. L’onore diventerà un valore dominante nella cultura del secondo Cinquecento, e la sua forza sarà tanto maggiore quanto più si accamperà come valore assoluto slegato dall’honestum. L’onore inteso come etichetta sociale diventerà una forma di utile anche quando pretenderà di essere tutt’altro. Nel secondo Cinquecento il tramonto dei vecchi valori è molto avanzato e la prudenza serviva a celarne e anche a curarne i tratti più inquietanti, assumendo il ruolo della “sagesse” italiana, che, con il pretesto di celare la crisi, di fatto la favoriva fino al punto da portarla all’acme e alla rottura con il passato dell’onestade.

Jacopo Sadoleto e la saggezza.

L’accenno alla “sagesse” ci consiglia di aprire una piccola parentesi per occuparci di un’opera piuttosto anomala per la sua diffusione, ma certamente indicativa della piega che la cultura prendeva allontanandosi sempre più dall’onestade. Consideriamo brevemente il saggio di Jacopo Sadoleto, De laudibus philosophiae del 1535, nello stesso periodo in cui Guicciardini scriveva i suoi Ricordi. Giova ricordare che l’autore non proviene dall’ambiente fiorentino, ma da quello curiale (fu curatore dei brevi papali, e in questa circostanza strinse amicizia con Bembo); si trovò coinvolto nelle dispute religiose che fiorirono con lo scoppio della Riforma (si ricordi lo scambio di lettere polemiche con Calvino), e infine bisogna ricordare che scrisse il trattato a Carpentras – ossia lontano dall’Italia – dove era vescovo. Il titolo annuncia soltanto un aspetto del suo contenuto, perché fin da una prima lettura si capisce che il tema centrale sia quello della “sapienza” e del rapporto che questa avrebbe con la filosofia. Anzi, la prima parte del trattato – diviso in due libri – denigra la filosofia e la funzione che le si attribuisce nella formazione della sapienza. La voce dell’espositore è quella di Fedro, nome dato a Federico Tommaso Inghirami, e a lui viene attribuito il ruolo di demistificatore della filosofia. È una demolizione briosa che ricorda il tono di Valla nei riguardi degli Stoici, e che anticipa le posizioni di un Secondo Lancellotti nei riguardi del sapere antico. Per Fedro la filosofia non ha mai creato dei veri sapienti, e semmai ha creato delle caricature di sapienti che, magari, guardavano al cielo e non si accorgevano di cadere in un pozzo. I dotti considerano grandi filosofi quelli cui vengono attribuite alcune sentenze che sembrano profondissime, come ne quid nimis o nosce te ipsum, ma che a ben vedere non hanno profondità alcuna. Nelle varie branche della filosofia i risultati sono tutt’altro che esaltanti. Si guardi ad esempio il campo morale: quale persona è diventata saggia seguendo i concetti di summum bonum di cui esistono tante definizioni quante sono le scuole di pensiero? E devono essere i filosofi a dirci che cos’è la mediocritas? Se si guarda alla storia antica per cercarvi modelli di sapienza, si deve concludere che i cosiddetti “sette sapienti” furono in sostanza dei poveracci e dei falliti, persi dietro le contemplazioni delle “cose divine e umane”, mentre i veri sapienti furono i Licurgo e i grandi uomini d’azione. La sapienza si vede non nell’attività contemplativa, ma nell’azione. E la sapienza non ha solo finalità pratiche, ma anche altre addirittura utilitarie. Sadoleto cita con approvazione una sentenza di Pacuvio: «Sapientem qui sibi prodesse nequeat, nequicquam sapere»,61 ossia «chi non può giovare a se stesso, non è un sapiente». E continua: «Hanc ego artem et disciplinam agendae vitae sapientiam voco, civilem quandam popularemque philosophiam, erigentem homines ad facta tum splendida, tum in multitudinem gloriosa; eosque magnos, potentes, nobiles, atque ut uno verbo complectar omnia, principes denique efficientes» (ivi: «Io chiamo sapienza quest’arte e disciplina di una vita attiva, una filosofia popolare che spinge gli uomini ad azioni splendide e gloriose agli occhi della moltitudine, e chiamo grandi, potenti e nobile, e, per dirlo in una parola, principi le persone che le realizzano»). La tesi conduttrice del discorso di Fedro ha in queste frasi la sua cifra. La sapientia – e in questo caso sarebbe giusto intenderla come “saggezza” –62 è il sapersi procurare i beni materiali e la gloria e il potere. Tale ricerca non autorizza a danneggiare gli altri, ma vuole che anche il bene che si cerca per gli altri sia in prima istanza un bene proprio, una risposta ad un’esigenza primaria di benessere e di potere. Detto in termini congrui con il nostro tema, è una ricerca in prima istanza dell’utile. La sapienza ha per traguardo l’utile e non l’onesto, e non si dice in alcun luogo che l’utile sia inconcepibile senza che sia anche honestum.

Naturalmente la seconda parte corregge la prima, come avviene nel Protagora platonico. Ortensio – voce principale di questa seconda parte – difende la filosofia tributandole quelle lodi annunciate nel titolo del trattato. E per cominciare confuta l’affermazione che la saggezza si provi con l’applauso del popolo. Evidentemente l’affermazione di Fedro, che aveva precedenti ciceroniani e umanistici, ha una visione politica del problema nel quale l’applauso popolare è legato alla ricerca del potere. Ortensio procede, invece, seguendo la via aristocratica, e questa porta alla valorizzazione della filosofia, che, tradizionalmente, rifugge dal “volgo profano”. La tesi è vecchia, ma vale la pena contestualizzarla. La filosofia della quale Sadoleto parla è tutta una conquista della ragione e non si allaccia in modo alcuno ad una qualche illuminazione procedente da una fonte divina. In altre parole, Sadoleto non cerca una “ricongiunzione” con un bene o un bello metafisico alla maniera ficiniana o neoplatonica, e in questa filosofia tutta conquistata dalla ragione si inserisce il discorso sulla saggezza o sapienza. Questa non consiste nell’accumulo di beni materiali, soggetti al variare della fortuna, ma piuttosto nella combinazione d’integrità morale e d’acutezza d’ingegno: quest’ultimo da solo può essere semplicemente astuzia, e l’integrità morale non si dà senza che la ragione la costruisca nel tempo poiché non è un dono di natura o una grazia divina, bensì una conquista intellettuale. La sapienza è sufficiente a se stessa, ma non per questo rifiuta i beni materiali se il loro possesso non implica alcuna azione disonesta per procurarseli. Tutti gli uomini amano la sapienza, la quale non si raggiunge con il semplice istinto, ma è necessaria la guida della filosofia. La filosofia, infatti, è la ricerca della verità, e la conquista di questa non può che tradursi in sapientia o bene morale. E da qui può partire una ricerca ulteriore che culmina con Dio o con il bene ultimo o sommo. Così se per un momento crediamo che Sadoleto si metta sulla strada dei Bovelles, in realtà ritorna a posizioni che abbiamo incontrato nella tradizione scolastica e umanistica. Tuttavia egli mantiene la sapientia nei limiti della ragione, e dentro quei limiti elabora la distinzione tra la sapientia e la prudentia, differenza riconducibile ai fini diversi che rispettivamente si propongono: la sapientia ha un orientamento speculativo, mentre la prudentia è orientata verso la pratica. In conclusione, per noi l’importanza del trattato di Sadoleto non sta nella rivalutazione della filosofia sottratta all’influenza ficiniana e neppure nella distinzione fra prudentia e sapientia, ma proprio nell’identificazione della sapienza con l’utile. Non importa se nello stesso trattato questa idea venga confutata: conta moltissimo il fatto che ormai si sostenga apertis verbis l’importanza dell’utile, considerato come il fine della vera sapienza. È un’idea destinata ad avere un grande successo grazie anche al terreno che l’utile/dulce oraziano fertilizzava: la saggezza oraziana di colore epicureo, che troverà i suoi paladini negli Ariosto e nei Castiglione, portava avanti l’idea centrale di un sapere equilibrato, distante e pratico insieme, che si compone nella dolcezza della letteratura.63

Nelle considerazioni di Sadoleto spira quell’aria di revisionismo che circolava in quei primi decenni del Cinquecento, e da quella ventata non era esente neanche il filone culturale più conservatore della tradizione umanistica. Si preparava, così, passo dopo passo il momento in cui l’onestade avrebbe conosciuto il suo crepuscolo e quindi il tramonto definitivo.